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L’Italia schiava dell’autotrasporto

Lo sciopero che sta mettendo in ginocchio il Paese ci colpisce con tale forza perché le merci si muovono quasi esclusivamente lungo le strade. Le alternative -a cominciare dal "ferro"- sono in via di estinzione. È una questione di scelte e di indirizzi governativi

Basta poco a mettere in ginocchio l’Italia. Quattro giorni di sciopero degli autotrasportatori, e il Paese è sull’orlo di una psicosi collettiva. Capita, quando l’88% del traffico merci dipende dal trasporto su gomma. Una dipendenza che è diventata la spina dorsale dell’economia tricolore, anche se la percorrenza media di un prodotto su strada è di appena 100 chilometri, e per ogni chilometro quadrato ci sono 42 veicoli circolanti (oltre 50 al Nord).
Solo oggi, di fronte ad alimenti freschi e surgelati che rischiano il deterioramento, a frutta e verdura che triplicano i prezzi, alla vendita della carne ai minimi storici e all’approvvigionamento del pesce che crolla dell’80-90%, alla scarsità di carburanti e di farmaci, qualcuno azzarda ricette da sempre possibili ma mai messe in pratica: “Abbiamo bisogno di lavorare urgentemente su modalità alternative per il trasporto delle merci” ha dichiarato il ministro dell’Ambiente Corrado Clini.
La protesta iniziata il 23 gennaio in Sicilia e diffusasi poi nelle altre Regioni diventa un invito a ripensare il “mercato” delle merci in Italia: fra le richieste che hanno fatto scattare la protesta da parte dei camionisti ci sono il recupero immediato dell’accise sul carburante sulla fattura d’acquisto senza anticipazione di alcun costo, pagamenti obbligatori a 30 giorni, la remunerazione dei tempi di attesa dall’arrivo al luogo di carico/scarico, esenzione dal Sistri (sistema di tracciamento dei rifiuti non pericolosi), sconto immediato al casello e il contenimento dei costi assicurativi.
Le statistiche compongono un quadro allarmante, per molti confuso ma per qualcuno molto chiaro: ad esempio il neo-Ministro per l’Ambiente Corrado Clini ha detto  recentemente in un suo discorso pubblico che “siamo strangolati da un sistema di trasporto merci che viaggia per oltre l’80% su gomma e solo il 5% (sic!) delle merci in Italia va su ferrovia. È una cosa ridicola in un Paese sviluppato”.
Bene. Peccato che nulla è cambiato da quando, all’inizio del decennio scorso, una protesta degli autotrasportatori aveva fatto rischiare la paralisi al Paese. Allora ci fu un accordo tra Governo e i maggiori sindacati, e la protesta si placò: le imprese di trasporto hanno oggi diritto a un rimborso sull’accisa che, per il solo 2011, va da 19 a 189 euro ogni mille litri di gasolio e la totale detrazione dell’Iva sul costo del carburante.
Inoltre gli acquisti dei carburanti sono deducibili dalla denuncia dei redditi.
Ma oggi il prezzo del petrolio è aumentato così tanto da non essere più sopportabile nonostante tali agevolazioni, e il sindacato TrasportoUnito si è fatto portavoce dei disagi deliberando la protesta in piazza. Il settore dell’autotrasporto vede tra i propri sponsor anche soggetti di peso come Fabrizio Palenzona: il vicepresidente di Unicredit è anche presidente di Aiscat (l’Associazione italiana delle società concessionarie delle autostrade e dei trafori) ma soprattutto presidente onorario della Federazione Autotrasportatori Italiani da sempre favorevole ai blocchi: il 5 gennaio dalle pagine de Il Giornale ha avvertito Confindustria chiedendo di non toccare la soglia minima dei costi per la sicurezza degli autotrasportatori su strada, definendola “una battaglia per la civiltà”. Secondo l’unione degli industriali, invece, fissare una soglia minima sarebbe contrario a una piena liberalizzazione del settore, e servirebbe a nascondere le vecchie tariffe obbligatorie.

Per superare l’impasse è necessario tornare a parlare di “modalità alternative”, come ha detto Clini. Esistono senz’altro margini di miglioramento per il traffico merci su acqua, mentre è risaputo che il trasporto merci su rotaia in Italia -principale alternativa alla gomma- è “in via d’estinzione”: il 9,9% delle merci vengono caricate su ferrovia mentre la media europea si aggira intorno al 17%. Convertire l’intero traffico merci alla ferrovia non sarebbe però la soluzione ottimale: da uno studio del 2010, curato dal Professor Giuseppe Russo del Politecnico di Torino, si evince che la ferrovia conviene per tratte superiori ai 1000 chilometri. Concentrandosi sui valichi alpini, lo studio arriva alla conclusione che per creare un beneficio di 202 milioni di euro annui alle imprese di trasporti si dovrebbe convertire “solo” il 25% del traffico merci su gomma in ferrovia.
Le decisioni di Trenitalia in termini di commercio su rotaia sembrano però andare in direzione opposta: se una piccola azienda vicino alla ferrovia volesse costruire un “raccordo” deve farsi carico di tutte le spese per le infrastrutture necessarie, senza alcuna agevolazione da parte di Rfi. In più, con la nuova normativa sui raccordi introdotto nel 2009, se non si supera una certa soglia di traffico bisogna pure pagare un canone. Questo non succede nel resto d’Europa: in Germania il Bund (Stato federale) riconosce un contributo del 50% a chi attiva o riattiva un raccordo.
Nel traffico merci su rotaia il monopolio è della società Cargo, una controllata Trenitalia, che pianifica e gestisce tutto il comparto dei carri merci: un treno merci privato, obbligatoriamente immatricolato tramite Fs, potrà muoversi solo previo “nulla osta” della stessa Cargo. 
Intanto, vengono progressivamente smantellati gli scali-merci in stazioni ferroviarie di media-piccola grandezza, perché troppo lontane dalle postazioni centrali (in genere situate in grandi scali). Nella strategia del gruppo Fs questi spazi sono destinati alla “valorizzazione immobiliare”.
Lo studio del Politecnico aiuta a capire che l’alternativa non va ricercata in una modalità unica di trasporto ma nel giusto equilibrio tra quelle esistenti, ricalibrando l’assetto odierno troppo sbilanciato sulla gomma, l’ambito nel quale oggi si riscontrano gli sprechi maggiori. 
Il più indicativo è quello dei viaggi a vuoto, cioè dei tir senza carico che viaggiano sulle strade italiane. Secondo i dati Eurostat 1 tir su 4 si ritrova a viaggiare senza merce e questo contribuisce a un inutile carico sulla rete viaria, a maggiori emissioni inquinanti e a uno spreco di energia e di lavoro. L’incidenza più elevata è quella relativa al trasporto in conto proprio: il 31% dei viaggi compiuti viene effettuato a vuoto. “Il modo di organizzare l’autotrasporto e di effettuare il servizio non può essere spontaneistico, ma è la conseguenza di esperienza, formazione e qualità”, come si legge nel Piano Logistico 2011 (un documento redatto dal ministero dei  Trasporti e consultabile on line). E forse è arrivato il momento di mettere in pratica tale “esperienza”.

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