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L’invadente Borsa dei pochi padroni
Piazza Affari, il cui andamento scandisce l’informazione non solo economica, è utile solo all’élite che la controlla. E non rappresenta più l’economia reale Siamo ossessionati dalle notizie di Borsa. L’indice Mibtel è in primo piano nei tg della sera, apre…
Piazza Affari, il cui andamento scandisce l’informazione non solo economica, è utile solo all’élite che la controlla. E non rappresenta più l’economia reale
Siamo ossessionati dalle notizie di Borsa. L’indice Mibtel è in primo piano nei tg della sera, apre i quotidiani del mattino e le homepage dei siti internet. Piazza Affari, dove ha sede il mercato borsistico italiano, a Milano, fa capolino in ogni momento della nostra giornata. Di quale fetta dell’economia italiana stiamo parlando? Quanta gente è coinvolta in quelle cifre che si rincorrono, nelle statistiche, nei più e nei meno delle infografiche? Ci aiutano i numeri: a Milano sono quotate 336 imprese, lo 0,0024 per cento delle 135.320 socie di Confindustria e un infinitesimo di tutte quelle che fanno l’economia reale del Paese.
E anche se oltre la metà delle famiglie italiane (circa il 62% del totale, secondo i dati rilevati nel 2007 dalla Consob, la Commissione nazionale per le società e la Borsa) non sono azioniste di spa quotate né aspirano a diventarlo, i giornalisti economici riversano su tutto il Paese la loro personale ossessione per la Borsa.
Questa onnipresenza non sembra giustificata anche da altri numeri: il 90,7% della capitalizzazione della Borsa, cioè il valore di mercato di tutte le azioni emesse da tutte le società per azioni quotate, è fatto da 75 spa delle 336 quotate a Milano al 31 dicembre 2008. Sono le cosiddette blue chip, quelle che hanno una capitalizzazione superiore a un miliardo di euro.
Piazza Affari, cioè, è un élite funzionale a sé stessa. A Palazzo Mezzanotte (nella foto a sinistra) c’è posto per pochi: non ci sono, ad esempio, quattro delle prime dieci imprese italiane per fatturato (Gse-Gestore dei servizi elettrici, Poste, Esso Italia, Riva).
Sono quotate, invece, banche e assicurazioni: valgono da sole il 32,4% della capitalizzazione di Borsa Italiana (dati di marzo 2009); oltre il 90% ha partecipazioni sparse in altre società quotate (secondo le conclusioni di un’indagine conoscitiva su banche, assicurazioni e società di gestione del risparmio dell’Antitrust, vedi Ae 102, p. 37); gestiscono circa l’80% dei fondi mobiliari, quelli che investono in Borsa i soldi del risparmiatori, che nel caso di Borsa Italiana sono 130. E anche la grande attenzione dei media alla Borsa si spiega scorrendo nei listini tutti i nomi della stampa periodica e di quella televisiva, e pure quelli dei grandi gruppi che li controllano (vedi Ae 102, p. 16).
È per questo che vige l’equazione “informazione economica=Borsa”. Anche se interi settori dell’economia italiana che riguardano la nostra vita quotidiana in Borsa non “vanno”.
Le banche e la stampa scelgono quali titoli devono essere “apprezzati dal mercato”, girare: non è un caso se, nel 2007, sono stati scambiati a Milano titoli Unicredit per un valore di 163,2 miliardi di euro, il 15,9% del valore totale del mercato borsistico italiano. Altri esempi: il 22 aprile il Gruppo l’Espresso ha presentato i conti del primo trimestre 2009, chiuso con una flessione del 18% rispetto allo stesso periodo del 2008; nello stesso giorno, il presidente del gruppo, Carlo De Benedetti, ha assicurato la propria fiducia al direttore del quotidiano la Repubblica, ha chiesto un intervento a sostegno del settore da parte del Governo, ha incassato le dimissioni del vice-presidente Marco Benedetto. Questo mix -tra le 11.31 e le 14.28- ha fatto lievitare del 6,5% il valore di ogni azione del Gruppo editoriale l’Espresso. O ancora: il 21 aprile sono passate di mano 88.329.731 di azioni Fiat, per un controvalore di 647.516.019,60 di euro; oltre il 5% delle azioni, oltre il dieci della capitalizzazione complessiva dell’azienda a fine marzo 2009 (che era di 5,68 miliardi di euro). È tutto un gran muoversi di denaro, che non ha nessun riscontro sulla situazione degli operai dello stabilimento di Pomigliano d’Arco (Na): lo stesso 21 aprile, Fiat ha annunciato la cassa integrazione fino a metà giugno.
Anche se economia reale e Borsa avanzano su sentieri paralleli, per definire il “valore” di una Borsa, per rappresentarlo, il dato utilizzato dai media è il rapporto tra capitalizzazione e prodotto interno lordo del Paese in cui quel mercato azionario ha sede. Due cifre che sembrano troppo distanti: da un lato c’è la ricchezza prodotta, dall’altro c’è un numero di carta, virtuale ed estremamente volatile. Ancora l’esempio di Borsa Italiana: a fine dicembre la capitalizzazione di Borsa Italiana era pari a 372 miliardi di euro (il 23,4% del Pil). “Borsa Italiana si sgonfia: ora vale il 17% del Pil” ha titolato l’8 marzo 2009 Il Sole-24 Ore. E nel pezzo: “Una distanza abissale dalle vette toccate nel boom del 2000, quando Piazza Affari era lievitata al 70% del prodotto interno lordo”.
“La Borsa, in Italia, è solo una vetrina del mercato finanziario. L’approdo a Piazza Affari produce ricchezza finanziaria, ma il fine non è l’investimento produttivo -spiega Alessandro Volpi, docente di Geografia politica ed economica all’Università di Pisa e collaboratore di Ae-.
Le imprese non vanno in Borsa perché non è remunerativo: se non sei nel ‘circuito’ delle società partecipate e finanziate dalle banche i tuoi titoli non si apprezzano”. Ecco il baco e un paradosso: a prescindere dalla crisi, una spa che entra in Borsa rischia di distruggere “valore”. “Una Borsa così non ha senso di esistere -conclude Volpi-: il problema dell’economia reale, oggi, è l’accesso al credito per le piccole e medie imprese”.
Un bisogno di finanziamento che riporta l’attenzione sulle banche, che sono le padrone della Borsa. Letteralmente: pochi lo sanno ma anche Borsa Italiana spa è quotata, non in Italia ma alla London Stock Exchange (Lse, vedi box a p. 19). L’importante, perciò, è “crescere” (come numero di imprese quotate). E crescere significa muovere sempre più soldi: nel 2008, i contratti negoziati a Piazza Affari sono stati 274.577 al giorno, con un controvalore quotidiano medio di 4,1 miliardi di euro e totale di 1.028 miliardi di euro. Alla chiusura del bilancio, London Stock Exchange deve garantire dividendi (ricchezza reale) ai propri azionisti. E quelli di riferimento sono, come per la Banca d’Italia (vedi Ae 104) Unicredit e Intesa-Sanpaolo. Che anche a Piazza Affari coltivano i propri interessi.
Il ruolo strategico delle società di rating
Il falso mercato della fiducia
L’“alfabeto del rating” è un must dell’informazione economica. Dalla “tripla A” alla “D” di default, il rating è un parere formulato da società specializzate che invita il risparmiatore a investire in azioni, obbligazioni, titoli di debito emessi per finanziare le proprie attività da imprese quotate (ma anche dagli Stati). Sul sito borsaitaliana.it, ad esempio, il prospetto di ogni società quotata è corredato da un rating. E “il mercato della fiducia” -come lo definisce il professor Pierangelo Dacrema, che insegna Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria e ha pubblicato il libro La crisi della fiducia (Etas, 2008)-, non è esente da un conflitto d’interessi: tre agenzie, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, società quotate in Borsa, controllano il 95% di un mercato che vale 5 miliardi di dollari. “Le società di rating hanno agito da catalizzatori e acceleratori della crisi globale, perché un rating positivo ha reso ‘vendibili’ prodotti che se non fossero stati classificati non sarebbero stati venduti. La situazione si è aggravata quando le società hanno attribuito doppie e triple A a titoli emessi da istituzioni finanziarie, come le banche d’investimento”.
Come nasce un rating?
“La dirigenza di un’azienda firma un contratto con una società di rating. S’impegna a fornire informazioni, e si obbliga a pagare. Il lavoro bruto è affidato a giovani, designati come ‘esperti’ dopo aver letto bilanci societari per 3 o 4 anni. Questi formulano un parere, che poi viene confrontato con altri esperti, in questo caso esterni. Le imprese, però, possono fermare il rating: devono dare l’assenso alla pubblicazione, che è sempre successivo alle valutazioni. Questo è un meccanismo che suscità perplessità. E poi: ogni società di rating vorrà veder pubblicato un proprio studio, perché chi è troppo severo rischia di perdere un cliente”.
Non sempre, poi, il rating, è richiesto. Che cosa significa?
"Esplicitamente, nessuna agenzia ammetterà di fare dei rating ‘unsollicited’, che servono a richiamare l’attenzione di un soggetto perché magari si è rivolto a un’altra delle tre. Gli unsollicited, di solito, sono rating più bassi: le agenzie si giustificano argomentando che, probabilmente, cioè è dovuto alla mancanza di tutti gli elementi di valutazione. È un modo per spingere gli ‘emettitori’ a far loro un contratto per un rating ‘sollicited’, e per difendere l’oligopolio".
A chi interessano le valutazioni della società di rating?
"I curiosi sono tanti. Ma oltre agli emittenti, i soggetti concretamente interessati sono solo i ‘gestori’, soggetti destinati a compiere scelte delicate utilizzando i risparmi di tutti. Banche, fondi comuni d’investimento, assicurazioni: alcune centinaia di soggetti".
Un’alternativa al rating?
"Non esiste: i bilanci sono diventati così complessi che un gestore non vede l’ora di avere un appiglio, che perdipiù è gratis. Il rating è difficile da sostituire: sarebbe necessario un insieme di pressioni interne ed esterne, l’azione di controllo di una autority, che dovrebbe essere la Consob
in Italia o la Sec negli Usa".
Cinque italiani a Londra
Borsa Italiana spa è una società quotata in Borsa: le azioni della società di Piazza Affari (www.borsaitaliana.it) vengono scambiate alla London Stock Exchange (Lse) dall’ottobre 2007. Da quando, cioè, Borsa Italiana si è fusa con Lse dando vita alla holding London Stock Exchange Group (Lse, www.londonstockexchange.com). Nel 2008, i ricavi di Lse sono stati di 546 milioni di sterline, il 56% in più rispetto all’anno precedente. A fine aprile 2009 un’azione valeva 6,43 sterline.Gli azionisti più importanti di Lse sono Borse Dubai Limited (20,6% delle azioni), Qatar Investment Authority (15,1%), Kinetics Asset Management Inc/Horizon Asset Management Inc. (10,9%), le nostre Unicredit (5,9%) e Intesa-Sanpaolo (5,3%) e, infine, Legal & General Group plc (3,0%). Del board fanno parte Angelo Tantazzi, chairman di Borsa Italiana, Massimo Capuano, a.d. di Borsa Italiana, e, come “Non-Executive Directors” Paolo Scaroni, a.d. di Eni, Andrea Munari, managing director di Banca Imi (Gruppo Intesa-Sanpaolo) e Sergio Ermotti, vice a.d. di Unicredit. Nella foto, Tantazzi e Capuano (primo e terzo da sinistra, con Clara Furse e Chris Gibson-Smith, di Lse).
Chi controlla il controllore
Nel “decreto incentivi” anti-crisi approvato ad aprile, il governo ha inserito tre disposizioni per le società quotate, misure che rendono “meno contendibili” le spa il cui valore è crollato nell’ultimo anno (tra queste, Mediaset). Il governo ha raccolto i suggerimenti del presidente della Commissione nazionale per le società e la Borsa (Consob), Lamberto Cardia, “lanciati” in un’intervista concessa a metà marzo a Panorama, settimanale di Mondadori (di proprietà del capo del governo). Il pacchetto prevede l’innalzamento dal 10 al 20% della quota di azioni proprie che ogni società può detenere in portafoglio, consente l’incremento fino al 5% annuo delle partecipazioni a chi già possiede tra il 30 e il 50% di una spa, introduce la possibilità per la Consob di ridurre dal 2 all’1% la soglia dell’obbligo di comunicare alla Vigilanza l’avvenuto acquisto di un pacchetto azionario. La Consob è un’autorità indipendente creata nel 1974, più volte finita nel mirino come nei casi Parmalat e Cirio.
L’INTERVENTO, di Tonino Perna
Il denaro, la Co2 e lo squilibrio strutturale
“Per me -scrive Mandelbrot, il padre della geometria frattale- tutto il potere e la ricchezza della Borsa di New York o di un ufficio bancario londinese (…) sono analoghi a sistemi fisici di turbolenza in una macchia solare o a vortici nelle acque di un fiume”. Esistono convergenze tra le fluttuazioni borsistiche e quelle climatiche? Mandelbrot non spiega il motivo per cui oggi assistiamo alla più grande crisi finanziaria nella storia del capitalismo dopo il crollo nel periodo 1929/1932. Piuttosto, il chimico e fisico Il’ja Prigogine ci dà un grande contributo con la sua analisi sulle “oscillazioni giganti” in presenza di una situazione di “squilibrio strutturale”. Ci dice, in breve, che quando un sistema si allontana dall’equilibrio “le fluttuazioni divengono capaci di instradare il sistema verso un comportamento completamente diverso dall’usuale comportamento dei sistemi idrodinamici. (…) È ben noto che quando un flusso raggiunge una certa velocità si possono creare turbolenze”. Ora, a differenza di Prigogine, io credo che si debba guardare all’accelerazione più che alla velocità nel ricercare la “causa prima” dello squilibrio in un determinato sistema. Per quanto concerne le fluttuazioni, o meglio gli eventi estremi -statisticamente definiti- che hanno caratterizzato l’andamento di Borsa negli ultimi trent’anni, possiamo dire che la causa prima è la quantità di denaro messo in circolazione e l’accelerazione con cui questo processo è avvenuto. In sostanza, le crisi sempre più frequenti nel mercato finanziario -1987, 1991/92, 1997, 2001, 2007/8- che hanno comportato fluttuazioni ed eventi estremi sempre più significativi sono legate a filo doppio con la crescente immissione di liquidità, che è oggi possibile stimare in circa 1 milione di miliardi di dollari -quando il Pil mondiale è di soli 60mila miliardi di dollari-. Credo che lo stesso ragionamento si possa sostenere per il ruolo giocato dalla CO2. La sua crescita esponenziale negli ultimi cinquanta anni ha prodotto uno “squilibrio permanente” che dovrà produrre fluttuazioni giganti o eventi estremi. Non è quindi la massa di CO2 attualmente presente che porta a fare fluttuare in modo anomalo l’ecosistema, ma l’accelerazione con cui questo fenomeno è avvenuto. Se questa immissione di anidride carbonica si fosse spalmata su un periodo molto più grande, avrebbe permesso a Gaia di reagire meglio, evitando risposte traumatiche. In ogni caso, come afferma anche Jeremy Rifkin, esiste una correlazione tra la crisi finanziaria e il mutamento climatico. Rifkin la individua nel crescente rischio pagato dalle assicurazioni per i danni agricoli crescenti, prodotti dai mutamenti climatici. A mio avviso, questo è un aspetto particolare di un quadro generale che lega i due fenomeni e passa attraverso questo modello di sviluppo. A mio avviso è quindi il tema della “crisi” , degli eventi estremi , delle fluttuazioni giganti che deve preoccuparci . Se l’eccesso di denaro e di CO2 stanno provocando grandi danni sul piano sociale e ambientale, l’unico rimedio è quindi quello di ridurli drasticamente. Non è un’operazione né semplice, né immediata, ma non ci sono alternative. Tra il denaro e la CO2 non c’è una correlazione diretta, ma diverse convergenze nel modello di funzionamento ed alcune divergenze. Senza una quantità sufficiente di denaro l’economia ristagna, si ferma ed abbiamo la recessione. Lo stesso possiamo dire per la CO2: senza una quantità adeguata di anidride carbonica non ci sarebbe vita sul nostro pianeta. Ma, in entrambi i casi, una eccessiva e rapida immissione dei due fattori produce uno squilibrio permanente e provoca le “fluttuazioni giganti” che abbiamo richiamato. Fin qui le analogie. All’interno del modello di sviluppo capitalistico così come lo abbiamo finora conosciuto l’aumento del denaro in circolazione produce un aumento delle attività produttive e degli scambi e quindi della immissione della CO2. Ma non è detto che questa correlazione sia data una volta per tutte. Per esempio, un piano di riconversione ecologica della nostra economia potrà fare diminuire la CO2 immessa nell’atmosfera, senza fare cadere l’occupazione. Più problematico è il rapporto con il Pil. È indubbio che il Pil misura il processo di mercificazione -e quindi di monetizzazione di una società- non il suo benessere reale. Se usciamo da questo malinteso possiamo costruire un’altra economia, a partire da un’altra società.