Opinioni
L’informazione e i pregiudizi
A una meta-lettura, il film “Mare chiuso” c’interroga sull’informazione in Italia, e sul suo grado di libertà. Il saggio “Scritti galeotti”, invece, ci aiuta a guardare con occhi diversi al concetto di prigione _ _ _
Una premessa: direttore stia tranquillo. Ho promesso al direttore di questa rivista che non avrei fatto recensioni su serie tv americane (la mia vera e unica passione). Quindi prima di iniziare a scrivere le segnalazioni del mese sono costretto a tranquillizzarlo: ora citerò una serie tv, ma solo per parlare d’altro (e per segnalarvela caldamente, ma rimanga tra di noi). Mentre nella rete tv americana HBO va in onda la straordinaria serie “The Newsroom”, scritta dal premio Oscar Aaron Sorkin, che solleva questioni etiche sul giornalismo embedded, sulla deontologia della categoria e sulla libertà di stampa, da noi va in onda Porta a Porta speciale prima serata, ma lo sapete già, purtroppo. Paragonare i due prodotti è ingeneroso e sbagliato (una è fiction, l’altra giornalismo) però entrambi ci mostrano in modo molto chiaro che cos’è il buon giornalismo (uno dei due lo fa per negazione, ma non dico di quale si tratta). A volta sembra tutto così chiaro: stando davanti alla tv ho la supponenza di capire quando mi stanno raccontando una notizia vera e una falsa. A questo unisco l’ingenuità di credere che in un mondo come il nostro ormai sia impossibile nascondere una notizia. La si può camuffare, annacquare e depotenziare, ma nascondere no.
Lo credevo fino a che non ho visto il documentario “Mare chiuso”, di Stefano Liberti e Andrea Segre, film-inchiesta sull’epopea dei migranti africani e sui crimini dei respingimenti italiani nel Mediterraneo. Segre, di cui abbiamo segnalato mesi fa il bellissimo lungometraggio “Io sono Li”, si accompagna al giornalista Liberti e realizza una cruda e approfondita inchiesta che fa luce sulla detenzione dei migranti nei campi libici, sulle torture e i soprusi che hanno subito. Il documentario mostra interviste senza filtro ai detenuti che raccontano delle angherie e della mancanza di umanità dei soldati libici e soprattutto mostra filmati, ripresi col telefonino delle vittime, dei respingimenti da parte delle navi militari italiane. Navi avvistate prima con entusiasmo al grido di “siamo salvi”, e poi trasformatisi in muri galleggianti fatti di intolleranza e spietato cinismo. Come ciò sia passato sotto silenzio nella stampa mainstream è forse ingenuo e puerile chiederselo. Ma anche qui basta semplicemente accostare, come fanno i due bravi autori, le dichiarazione asciutte e drammatiche dei migranti con le immagini di repertorio dei telegiornali, piene di dichiarazioni e sorridi di Gheddafi e Berlusconi. Per questo, guardando il documentario di Segre (trovate tutte le informazioni sul sito Zalab.org), ho sostituito dentro di me la domanda “come è stato possibile che nessuno ne abbia parlato?” con quella “com’è possibile che nessuno ne parli?”. Circola su internet da qualche tempo una frase ascritta a Roger Lincoln (ma io dubito sempre della paternità reale degli aforismi) che spiega abbastanza bene i principi dell’informazione: “Le due regole per mantenere il potere sono: 1. Tenere tutte le informazioni per sè”.
Ah, guardate “The Newsroom”, ne vale la pena.
Non potendo parlare di serie americane, ho proposto al direttore di questa rivista di parlare di “pregiudicati”. Ma non di persone con un grado di giudizio sulla testa, ma di concetti pregiudicati. Di idee e parole che si portano appresso un significato orribile, una valenza negativa. Insomma parole poco gradite, che se le incontriamo mentre percorriamo la pagina di un libro o di un giornale, cambiamo strada, allontanandoci spaventati. Una di queste parole è prigione. Ora, lungi da me dire che la prigione è bella anche se fa male. Su queste pagine abbiamo spesso denunciato lo stato disumano delle carceri italiane. Però, è bene cercare anche in quella parola una luce di speranza. Lo fa benissimo Daria Galateria nel saggio “Scritti galeotti” (Sellerio). Il saggio racconta come la prigione possa fare benissimo a una certa categoria di persone: gli scrittori.
Voltaire, Oscar Wilde, William Borroughs hanno tutti passato del tempo nelle patrie galere e le loro opere ne hanno giovato. La reclusione forzata, la clausura, la vera libertà dell’essere lontano da impegni sociali e di lavoro, hanno dato a questi artisti una forza nuova e più pura. Il saggio è molto divertente, come lo sono sempre i libri che raccontano le disgrazie altrui che si trasformano in successi. Da qui a consigliare ad aspiranti scrittori di farsi arrestare e rinchiudere ce ne passa, ma almeno quando incontrerete la parola “prigione” in un libro non vi spaventerete e non cambierete pagina. —