Economia / Attualità
L’influenza di Instagram
Sulla piattaforma vengono pubblicati ogni giorno 95 milioni di post che ricevono 4,2 miliardi di like. Inchiesta sulla pubblicità non esplicita: un mercato che vale almeno 3,5 miliardi di euro
Selena Gomez è la star di Instagram: le foto condivise dalla cantante americana raggiungono gli smartphone di ben 101 milioni di persone, i suoi follower. A metà luglio Gomez ha pubblicato un proprio ritratto: fissa l’obiettivo e intanto beve da una bottiglia di Coca-Cola, che riporta il testo di una delle sue canzoni, “Me and the Rhythm”. Quell’immagine ha ottenuto 5,7 milioni di “like”, e 221.559 utenti l’hanno commentata. Chissà se si sono accorti che il post è stato modificato (tanto che oggi è indicato come pubblicato il 15 settembre), con l’aggiunta di un hashtag: la “parola chiave” accanto al cancelletto è “ad”, e sta per advertising, pubblicità; significa che Gomez è una testimonial di Coca-Cola, e che quello scatto è stato commissionato e retribuito.
Ogni giorno su Instagram -che è nato nell’ottobre del 2010 e dalla primavera del 2012 fa parte della “famiglia” di Facebook, acquistata per un miliardo di dollari- vengono pubblicati 95 milioni di foto e video, che ricevono in media 4,2 miliardi di “like”, da parte di oltre 300 milioni di utenti (sono quelli attivi quotidianamente sul social network, mentre oltre mezzo miliardo di persone si connettono almeno una volta al mese): non è possibile sapere quante tra queste foto sia in realtà pubblicità mascherata, ma è certo che la pratica ha attirato l’attenzione di coloro che si occupano di tutela del consumatore.
Secondo l’Autorità garante per le comunicazioni, Instagram è il social network italiano che negli ultimi tre anni ha segnato il miglior tasso di crescita dell’audience. Il tempo medio di navigazione suoi utenti è di oltre 2’ 30’’ al giorno (dati 2016)
“Negli ultimi cinque anni, complice la crescita di social network come Instagram, abbiamo osservato il fenomeno: la domanda che ci siamo posti è se il consumatore sia in grado o meno di comprendere che alcune foto sono pubblicità, e non rappresentano scelte di consumo e opinioni indipendenti dell’utente che ha ‘postato’ l’immagine -spiega ad Ae Robin Spector, un’avvocatessa che lavora presso l’Ufficio per la protezione del consumatore della Federal Trade Commission (FTC), l’equivalente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato negli Stati Uniti d’America-. Se sei stato pagato, il consumatore lo deve sapere, perché così potrà ‘leggere’ in modo diverso il tuo messaggio. È necessaria trasparenza di fronte a ogni possibile collegamento in essere tra colui che pubblica la foto e il marchio rappresentato”.
È grazie all’azione della FTC che Selena Gomez è dovuta intervenire a modificare la sua foto. Le indagini della Federal Trade Commission, però, non sono concentrate sullo star system. La pubblicità non esplicita, infatti, sa essere subdola, come dimostra il caso “Lord and Taylor” (L&T), la più antica catena statunitense di grandi magazzini con sede principale sulla Fifth Avenue a Manhattan, New York. Per promuovere una delle proprie collezioni private label, L&T ha inviato gratuitamente un modello a 50 persone, utenti di Instagram, che hanno ricevuto tra i mille e i 4mila dollari a testa per pubblicare una foto in un giorno specifico: in questo modo, secondo l’istruttoria della Federal Trade Commission, la campagna ha raggiunto 11,4 milioni di persone.
Anche se non sono famosi come Selena Gomez, i cinquanta pagati da L&T sono influencer, persone in grado di influenzare le scelte di consumo. Per questo, la FTC ha affrontato il caso, e lo ha reso pubblico nella primavera del 2016. Già nel 2013 si era occupata del tema, con l’analisi “.com Disclosures: How to Make Effective Disclosures in Digital Advertising”. E nel dicembre del 2015 l’istituzione ha invece pubblicato una guida -“Native Advertising: A Guide for Businesses”- in cui dettagliava, con esempi, le modalità per garantire trasparenza.
L’obiettivo della Federal Trade Commission non è limitare la pubblicità online, che è legittima, ma renderla evidente. Perché, come spiega il professor Giovanni Boccia Artieri, presidente della Scuola di Scienze della Comunicazione dell’Università di Urbino Carlo Bo, “il confine tra post e contenuto pubblicitario è labile sui social media, dato che questi rappresentano uno spazio dove convivono canali personali di comunicazione senza vocazione commerciale e pagine gestite in modo professionale, e perché sullo stesso canale c’è contemporaneamente l’utente comune e il professionista”. Boccia Artieri invita a guardare alle “macro-celebrity”, coloro che fanno parte dello star system, ma di prestare attenzione anche alle “micro-celebrity”, ovvero agli utenti celebri per nicchie di consumatori, come alcuni youtuber: “Quando una ragazza insegna su YouTube a dipingersi le unghie e mostra i prodotti che utilizza, non sapremo mai se le siano stati regalati o se stia lavorando sotto contratto, a meno che non decida di esplicitarlo”. Secondo Boccia Altieri, che coordina anche il Corso di laurea in Informazione Media Pubblicità, “ognuno di noi è un influencer per qualcun altro, ma il problema vero è il rapporto con l’impresa o il brand, un product placement non dichiarato che a differenza di quello regolamentato al cinema e in televisione va più a fondo, perché lavora su nicchie di gusto”. Un rapporto di ricerca del Branded content LAB dell’Università Cattolica, dedicato ai primi dieci anni di product placement “regolamentato” nel cinema, evidenzia infatti come su 659 inserimenti in 144 film, il 97,5% abbia usato la forza dell’immagine.
In Italia, gli influencer vengono celebrati -alla Triennale di Milano si è svolta dal 7 al 13 ottobre la mostra “YOU-The digital fashion revolution”, organizzata da Grazia con Chiara Ferragni, 6,9 milioni di follower-, e i media trattano la foto da quattro milioni di like di Selena Gomez come un fenomeno di costume, amplificandone il messaggio con tanto di gallerie fotografiche (“È Selena Gomez la nuova regina di Instagram”, repubblica.it). Negli Stati Uniti, invece, è già oggetto di analisi economiche, sulle colonne del New York Times e sul portale Bloomberg: chi ha tra i 3 e i 7 milioni di follower può chiedere fino a 187.500 dollari per un post su YouTube, o 75mila per Instagram. Chi ha tra i 50 e i 500mila follower, deve “accontentarsi” rispettivamente di 2.500 e mille dollari. Le stime sono di Captive8, una società americana che lavora con 125mila “influencers”, “che -spiega la società- insieme raggiungono 2,1 miliardi di fan”, e si occupa di metterli in relazione con i brand.
Nel nostro Paese, ogni mese, nove milioni di persone utilizzano Instagram, e gli influencer al di fuori dello star system sarebbero “qualche centinaio di persone”, secondo quanto racconta ad Ae Ilaria Barbotti, autrice del volume “Instagram Marketing” (Hoepli, 2015) e presidente dell’associazione Instagramers Italia (instagramersitalia.it). “Le digital pr, le pubbliche relazioni in rete, oggi si fanno praticamente solo su Instagram, dove sono migrate da Facebook, che ospitava le prime campagne social”. Nel nostro Paese, un Instagramers “inizia ad essere consistente sopra i 10mila follower”, e a quel punto vale almeno 100 euro a foto. Ne prende mille, invece, chi ha 300mila “seguaci”, o chi è in grado di garantire un numero alto di interazioni -“mi piace” o “commenti”- in relazione al numero dei propri follower.
Che cosa significa essere un influencer? Prendiamo l’esempio di Fabrizio Corona, 319mila follower sul profilo ufficiale @fabriziocoronareal: nell’arco di tre settimane, tra fine settembre e la prima metà di ottobre, Corona ha pubblicato tre propri ritratti indossando una t-shirt con il marchio Scutum, raccogliendo circa 15mila “like”. La stessa foto, pubblicata sul profilo ufficiale di @scutum_gioielli -1.563 follower- ha invece ottenuto una quarantina di “mi piace”. L’influencer, in questo caso, è in grado di moltiplicare per 375 volte la visibilità di un brand a cui era legato da un contratto, di cui però Scutum Gioielli non ci ha voluto fornire gli estremi. È certo, però, che gli anelli prodotti dall’azienda sono distribuiti attraverso il portale sipuede.com, che è “il sito ufficiale di Fabrizio Corona”.
Su Instagram sono presenti oltre 3 milioni di foto (per la precisione 3.008.877 post, al 17 ottobre 2016) che riportano l’hashtag #ad. Altri 474 mila risultano #sponsored. E 85mila presentano la dicitura #spon. Se ogni foto valesse mille euro (ma quelle di Selena Gomez “costano” fino a mezzo milione), il valore complessivo del product placement su Instagram sarebbe di almeno 3,5 miliardi di euro. Senza considerare che, almeno in Italia, le più seguite influencer pubblicano quasi ogni giorno foto “brandizzate” senza segnalare se si tratti o meno di pubblicità: le foto di Alessia Marcuzzi arrivano a 2,5 milioni di follower, e lo stesso pubblico può vantarlo l’ex velina Melissa Satta, che anche quando si fa fotografare indossando la divisa del marito calciatore -Kevin Prince Boateng- non manca di ricordare al pubblico che i suoi stivaletti sono Bata.
“Il settore ha una significativa rilevanza sociale, ma oggi non c’è alcuna istruttoria in corso. Manca la consapevolezza nel consumatore” (Giovanni Calabrò, Antitrust)
Secondo Barbotti, è corretto immaginare che le foto “pagate” siano evidenziate con hashtag come #ad o #sponsored, ma -ammette- “nelle campagne che ho fatto negli ultimi anni, le aziende non l’hanno mai richiesto. Esistono anche altre modalità di esplicitare il legame tra utente e marchio, come quella di taggare (citare, ndr) il brand, anche perché questo altrimenti non esce”.
Una campagna Instagram realizzata tra settembre e ottobre 2016 da Barbotti per conto di Jaguar, coinvolgendo 4 influencer -con l’hashtag #FPACECoast2Coast- è stata lanciata attraverso l’account ufficiale di Jaguar Italia: “A bordo del nuovo SUV di casa Jaguar un team di 5 instagramers e fotografi italiani viaggerà dalla #CostieraAmalfitana alla #CostaDeiTrabocchi passando per il #GranSasso”. E l’auto non compare in tutte e 63 i post legati all’hashtag.
Anche le attività promosse dall’associazione degli Instagramers sono però al limite della pubblicità. “In Italia -spiega il professor Boccia Artieri- vengono coinvolti come singoli o come associazioni per sviluppare prodotti di marketing territoriale, o sensibilità verso certi tipi di brand. Quando un singolo ‘Igers’ viene invitato, spesato, a raccontare un evento, ciò che fa è o meno pubblicità?”.
Una delle sezioni del sito dell’associazione presieduta da Barbotti è dedicata proprio al marketing. Lei spiega che ogni “progetto viene discusso ed approvato dal direttivo, e che la donazione è di 500 euro, per tutti. C’è una valutazione preliminare, per capire se il contest fotografico associato al progetto è in linea o meno con lo Statuto dell’associazione”. Ci sono anche azioni di promozione realizzate a titolo gratuito, come il recente tour nelle zone del terremoto di fine agosto, tra Lazio e Marche, visitando agriturismi e ristoranti che hanno avuto un calo del turismo.
“I giovani si fidano più del passaparola che della pubblicità. Per questo, lavoriamo per proporre contenuti volti a influenzare i comportamenti, anche attraverso personaggi che hanno un seguito”
(un professionista del settore)
@IgersItalia non indica, però, quali dei contenuti pubblicati siano sponsorizzati. E parlando dei post veicolati attraverso i canali legati all’associazione, Barbotti fa riferimento a esempi di “content marketing, veri e propri contenuti che non siano visti come marchette”. La sfida è far sì che la pubblicità non sia evidente. “I giovani si fidano più del passaparola che non della pubblicità. Per questo, lavoriamo per proporre contenuti volti a influenzare i comportamenti, anche attraverso personaggi che hanno un seguito, influencer” spiega un professionista che si occupa dello sviluppo delle campagne commerciali per una multinazionale del settore cura della persona. L’obiettivo: “Produrre qualcosa che ‘intrattenga’ il pubblico e che veicoli il mio prodotto, affinché il contenuto pubblicitario esplicitato resti affascinante”. L’azienda per cui lavora, aggiunge, sta discutendo le proprie linee guida in merito agli scatti postati dagli influencer: non tutti vengono pagati, alcuni ricevono dei “pacchi-dono” contenenti il prodotto da promuovere, ma ci si sta orientando per chiedere a tutti di indicare in modo palese che si tratta di una pubblicità.
“Sarebbe opportuno che ogni immagine relativa a un brand pubblicata da un soggetto legato a quel marchio riportasse l’indicazione ‘contenuto sponsorizzato’. Il problema è che questo comporta però una perdita della capacità di attrazione, di engagement, specie quando uno scatto è bello, e se il brand è interessante per il gruppo di persone raggiunto dal messaggio”, sottolinea il professor Guido Di Fraia, professore associato di Processi Culturali e Comunicativi allo IULM e direttore scientifico del Master in Social Media Marketing presso lo stesso ateneo.
Nel secondo trimestre del 2016, la pubblicità ha pesato per il 97% del fatturato di Facebook: 6,23 miliardi di dollari su 6,43. Più 59% rispetto allo stesso periodo del 2015
Vincenzo Cosenza è invece Senior Strategist di Blogmeter, società di ricerche che si occupa di web & social media intelligence: “Il tema della trasparenza -spiega- può esser datato alle origini del web, quando il fenomeno principale erano i blogger. Nel 2009, ad esempio, la società Wal-Mart aveva creato un falso blog e un falso blogger per promuovere i propri store in giro per l’America: già allora la Federal Trade Commission intervenne”. Cosenza spiega che le aziende che si rivolgono a Blogmeter vogliono essere aiutate a capire chi siano i migliori influencer, per poi coinvolgerli nelle attività di promozione e marketing. “Indaghiamo la capacità con i propri post di coinvolgere la community, ovvero di generare like o commenti, reazioni. Capire in che modo il pubblico interagisce con te”. Secondo Cosenza, la questione di una possibile regolamentazione negli scatti pubblicati da influencer “non emerge”. E questo perché “non c’è percezione da parte degli utenti, non c’è pressione sociale: non è visto come un problema” dice Cosenza. Tanto che, a differenza dei colleghi americani della Federal Trade Commission, Giovanni Calabrò, Direttore generale di Tutela del consumatore presso l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, sentito da Altreconomia, spiega che “al momento l’Antitrust non è bersagliato da segnalazioni; quindi, nonostante il settore abbia una significativa rilevanza sociale, a oggi non c’è alcuna istruttoria in corso. Manca la consapevolezza nel consumatore”. E se è vero che Calabrò definisce la pubblicità non esplicita sui social media “un fenomeno macroscopico”, nella Relazione annuale 2015 dell’Autorità il tema non ha rilievo.
“Per inquadrare al meglio il fenomeno credo occorra fare una distinzione tra ‘consapevolezza’ e ‘percezione’ -dice Michela Zingone, co-autrice del libro “Instagram. Comunicare in modo efficace con le immagini” (Area 51), che all’Università di Bologna tiene un Laboratorio di social media management e blogging alla laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d’impresa-. Ritengo, infatti, che tra gli utenti di Instagram, consumatori di prodotti e servizi nella vita offline, ci sia una certa consapevolezza rispetto al fatto che influencer, blogger e personaggi famosi siano pagati per promuovere determinati prodotti (o che li abbiano ricevuti in omaggio per parlarne). Quello che manca è però la percezione di queste immagini come casi di pubblicità non esplicita. In tanti aprono l’applicazione e consultano profili di fashion o lifestyle blogger prima di scegliere una nuova borsa, un paio di scarpe o prodotti per il makeup (solo per citare alcune tra le pratiche più diffuse)”.
“Da settembre anche nel nostro Paese è possibile per un’azienda aprire un profilo ‘business’ su Instagram, un’opzione gratuita che garantisce una serie di opzioni di gestione dei post, di controllo delle performance, e anche di inserire un pulsante di contatto, che è un modo per attivare direttamente opportunità di business” spiega Vincenzo Cosenza di Blogmeter. Instagram, però, non vede nel “mercato degli influencer” una forma di concorrenza sleale: la “pubblicità” è il cuore dell’attività del “gruppo Facebook”, e nel secondo trimestre del 2016 è arrivata a pesare il 97% del fatturato complessivo (6,23 miliardi di dollari su 6,43), che nel periodo preso in considerazione è cresciuto del 59% rispetto all’anno precedente, anche grazie all’introduzione dei post “sponsorizzati” su Instagram. Spiega Vincenzo Cosenza: “Non è dato sapere quali siano le entrate di Instagram Advertising, perché Facebook dichiara complessivamente quelle del gruppo”. Il valore commerciale di Instagram, e di Facebook, si fonda sul numero degli utenti e delle loro interazioni, like, condivisioni e commenti. L’hashtag #ad ne ridurrebbe il volume. Ed è forse per questo che non conviene a nessuno.
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