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L’infinita parabola di Lipa: da struttura “liquida” a centro di detenzione per i migranti
Sono passati due anni dall’incendio che rase al suolo il degradato campo profughi nel Cantone di Una-sana, in Bosnia ed Erzegovina, lasciando al gelo 1.200 persone. La vera natura del “nuovo” centro è svelata oggi da esponenti della Commissione europea: un luogo di detenzione contro i migranti che percorrono le rotte balcaniche
Il 23 dicembre di due anni fa un terribile incendio radeva al suolo un primo campo profughi precario e degradato situato a Lipa, nel Cantone di Una-sana, in Bosnia ed Erzegovina, lasciando all’addiaccio oltre 1.200 persone. Dopo un lungo periodo di collocazione dei rifugiati in condizioni estreme, dentro tende prive di tutto ed esposte al gelo dell’inverno, quasi un anno dopo, a novembre 2021, veniva inaugurato il Temporary reception centre (Trc) di Lipa.
Ma dov’è Lipa? Si tratta di un minuscolo villaggio, ubicato su un altopiano nella municipalità di Bihać, a circa 800 metri di altitudine, distante due chilometri dalla strada statale asfaltata e a 24 chilometri dalla prima città, quella di Bihać e dai servizi principali come ospedali, poste, scuole, stazioni, supermarket o altre infrastrutture. Una condizione di isolamento totale dunque che ne ha fatto un sorta di modello ideale di campo di confinamento in Europa (per un’analisi generale sui campi di confinamento nell’Europa contemporanea si invia alle relazioni tenute al convegno internazionale che si è svolto al Centro Balducci di Zugliano nel maggio 2022).
Come evidenziato nel rapporto “Lipa, il campo dove fallisce l’Europa” pubblicato da RiVolti ai Balcani nel dicembre 2021, “la scelta di costruire un campo di grandi dimensioni destinato altresì a ospitare anche famiglie e minori non accompagnati in una località totalmente isolata e dove, anche a causa dell’altitudine le condizioni climatiche sono particolarmente dure (le temperature scendono a meno quindici gradi durante l’inverno) non regge al minimo vaglio di razionalità e ancor meno al senso di umanità. Alle persone che vi sono confinate viene negata la possibilità di coltivare anche la più semplice relazione sociale in quanto essi non hanno alcuna possibilità di interagire con nessuno che viva al di fuori del campo e non possono recarsi in alcun centro abitato”. Il Rapporto sottolineava come “nessuna delle persone confinate nel campo subisce una formale restrizione della propria libertà personale ma l’abile stratagemma dato dalla inaccessibile collocazione della struttura vanifica quanto meno l’esercizio effettivo della libertà di circolazione configurando una inedita forma di segregazione senza base giuridica e senza bisogno di emanare alcun provvedimento. In tal modo ciò che non potrebbe essere attuato legalmente, ovvero rinchiudere tutti i migranti, è un obiettivo che si consegue comunque nella realtà dei fatti”.
La principale caratteristica del campo di Lipa era, fin al momento della sua apertura, l’indeterminatezza sulla natura giuridica di tale luogo. Non un centro di accoglienza per richiedenti asilo ma anche questo. Non un campo di transito per migranti che vogliono proseguire il viaggio verso l’Unione europea ma anche questo. Non un luogo di segregazione ma anche questo. In altri termini una sorta di luogo a uso multiplo o “liquido”, utilizzabile per diverse finalità. Come osserva il citato rapporto di RiVolti ai Balcani, “Il ‘Temporary reception centre Lipa’, come altre strutture in Bosnia ed Erzegovina, ma con caratteristiche più evidenti, assume dunque il ruolo di luogo nel quale confinare le persone cui viene negato l’esercizio dei diritti fondamentali garantendo loro un minimo livello di sussistenza per un tempo che rimane indefinito in quanto nel campo di confinamento non vi può essere alcuna evoluzione della condizione giuridica e sociale della persona ‘accolta’; la situazione di ognuno di coloro che permane nel campo è sospesa in un tempo che non scorre e può evolvere solo con la sparizione della persona che riesce a “passare” il confine a prezzo di sofferenze indicibili o con la sua decisione di modificare la rotta”.
Per un anno circa il campo di Lipa ha dunque svolto plurime funzioni e, dopo un periodo di sottoutilizzo legato alla drastica diminuzione dei passaggi delle persone in movimento attraverso la Bosnia, ha visto una modesta ripresa delle presenze da settembre 2022. Tra il 28 novembre e l’11 dicembre di quest’anno le presenze a Lipa sono state di 201 persone, quasi tutte afghane, su una capienza di 1.512 posti, come evidenzia il rapporto periodico dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Lo stesso rapporto riporta l’andamento degli arrivi dei migranti nella Bosnia ed Erzegovina tra il 2017 e il 2022 evidenziando come, a parte il 2017, anno di inizio del fenomeno migratorio nel Paese, l’andamento degli arrivi non abbia presentato grandi oscillazioni nel tempo, attestandosi su una media di 21mila persone all’anno. Uno scenario ancora una volta assai lontano dal costante allarmismo che avvelena il dibattito pubblico.
L’ungherese Olivér Várhelyi è commissario della Commissione Europea con il mandato di “garantire una prospettiva credibile dell’Unione europea per i Balcani occidentali, compresi i progressi nel processo di adesione” nonché quello di “accelerare le riforme strutturali e istituzionali nei Balcani occidentali, con particolare attenzione allo Stato di diritto, allo sviluppo economico e alle riforme della pubblica amministrazione”. In un suo intervento di poche settimane fa (28 novembre 2022), in occasione della firma di un Memorandum d’intesa tra la Bosnia ed Erzegovina e l’Oim sui rimpatri, rivolgendosi al governo della Bosnia ed Erzegovina e alla responsabile dell’Oim in Bosnia, l’italiana Laura Lungarotti, Várhelyi ha usato un linguaggio particolarmente brutale affermando che “ancora una volta, i Balcani occidentali si trovano ad affrontare una pressione migratoria illegale in aumento, che mette a dura prova la sicurezza, la stabilità e la prosperità della regione. Dobbiamo fermarla. Dobbiamo agire insieme. Dobbiamo agire in modo coordinato. […] Dobbiamo rafforzare la protezione delle frontiere nel senso più forte del termine. Deve essere chiaro che l’Ue accoglie le persone solo attraverso percorsi sicuri e legali. La porta non è aperta agli ingressi illegali. Pertanto, coloro che non hanno i requisiti per rimanere, dovranno essere rimpatriati senza indugio. Deve essere chiaro che proteggeremo l’integrità del nostro sistema di asilo. I crescenti abusi in materia di asilo e le false richieste di asilo sono inaccettabili”.
Su quali siano i crescenti abusi in materia di asilo il commissario Várhelyi non fornisce informazioni. Si riferisce forse agli afgani il cui diritto alla protezione è evidente e che rappresentano, secondo i dati dell’Oim, il 74% delle presenze in Bosnia? Agli iraniani? Ai siriani? Ad altri? Come emerge dal report dell’Unhcr di settembre 2022 il quadro del sistema di asilo in Bosnia rimane sconcertante.
Si può notare come non solo il numero delle domande di asilo in Bosnia non sia in aumento, come sarebbe ragionevole aspettarsi in considerazione sia dell’aumento generale delle migrazioni nei Balcani, sia in ragione della provenienza dei migranti da Paesi ad altissimo rischio, ma è addirittura in diminuzione attestandosi su numeri risibili. Lo status di rifugiato in Bosnia rimane pressoché inesistente, così come la protezione sussidiaria, nonostante la presenza di alcuni cittadini ucraini ai quali è stata riconosciuta. La situazione di sostanziale inesistenza di un sistema di asilo in Bosnia rimane quindi inalterata nel 2022 rispetto al quadro dell’anno precedente evidenziato nel rapporto di Rivolti ai Balcani “Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza. Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea” del luglio 2021, laddove proprio in riferimento alla Bosnia e agli altri paesi dei Balcani occidentali si metteva in rilievo come “il fatto che nei Balcani occidentali il diritto d’asilo sia ancora all’anno zero è una tematica cruciale per la politica dell’Ue che deve assumere la consapevolezza dell’urgenza di supportare i Paesi dell’area nella costruzione graduale di propri effettivi sistemi di accoglienza, protezione ed inclusione sociale sostenibili (ovvero con numeri molto piccoli ma crescenti) come già indicato nelle raccomandazioni avanzate dalla rete RiVolti ai Balcani. A ciò però l’Unione europea non sembra al momento affatto interessata, indirizzata esclusivamente verso le politiche di respingimento attuate con ogni mezzo, anche illegale, e di confinamento dei rifugiati nei Balcani, per l’attuazione delle quali è disposta a investire ingenti risorse”.
Nessuna preoccupazione su come rafforzare il sistema di asilo in Bosnia e che fare delle migliaia di persone in chiaro bisogno di protezione che attraversano il Paese (un piano di ricollocamento nella Ue? Un sostegno straordinario alla Bosnia per permettere un’integrazione sociale nel Paese di almeno una parte dei rifugiati?) emerge dalle dichiarazioni esternate dal commissario Várhelyi nella citata occasione. All’esatto contrario egli, in riferimento alle politiche della Commissione europea, ha annunciato che “stiamo riequilibrando e spostando le nostre priorità e azioni, concentrandoci maggiormente sulla lotta al contrabbando, sulla protezione delle frontiere e sui rimpatri. A tal fine, aumenteremo del 60% i nostri finanziamenti ai Balcani occidentali, portandoli a oltre 350 milioni di euro entro il 2024. L’Unione europea ha già adottato progetti per 170 milioni di euro negli ultimi due anni. Il nostro sostegno si articola in quattro componenti. In primo luogo, abbiamo appena adottato un pacchetto strategico di 30 milioni di euro per aiutare la regione a combattere il contrabbando e i gruppi della criminalità organizzata. In secondo luogo, c’è un pacchetto di assistenza di 40 milioni di euro per rafforzare le capacità di protezione delle frontiere. Di questo pacchetto, la Bosnia-Erzegovina ha avuto diritto a 6,4 milioni di euro di sostegno solo quest’anno. Sulla base delle richieste delle vostre autorità, stiamo fornendo attrezzature per la protezione e la sorveglianza delle frontiere come droni, telecamere termiche, sistemi di videosorveglianza, veicoli di monitoraggio e reti di comunicazione”.
Non solo. Várhelyi ha annunciato inoltre “un nuovo progetto pilota da 500.000 euro con la Bosnia-Erzegovina e l’Oim per sostenere i rimpatri volontari e forzati. Questo progetto rafforzerà la capacità di rimpatrio dei migranti che non hanno i requisiti per la protezione internazionale e che saranno rimpatriati direttamente dalla regione ai Paesi di origine. Questi nuovi accordi saranno replicati anche in altri Paesi della regione”.
In un Paese come la Bosnia ed Erzegovina che ha disfunzioni così profonde del suo sistema di asilo sia per ciò che riguarda l’accoglienza sia l’esame adeguato delle domande di protezione, è necessario interrogarsi a fondo (l’Oim lo sta facendo?) se i cosiddetti rimpatri volontari lo siano veramente o non possano diventare invece delle forme di allontanamento forzato mascherato; ovvero bisogna interrogarsi se non siano delle forme di uscita da condizioni di vita così estreme protratte per anni e tali da indurre le persone a scegliere persino il rientro nel paese dal quale sono fuggiti e nel quale sanno bene di rischiare la persecuzione, la tortura e la morte, ma almeno in un contesto a loro noto socialmente e culturalmente, piuttosto che tentare ancora di rimanere in un altro paese ostile in cui hanno tentato inutilmente di chiedere ed ottenere una protezione.
A conclusione degli annunci di Várhelyi ritroviamo proprio Lipa. “Oggi (il 28 novembre 2022, ndr) annuncio un altro progetto pilota da 500.000 euro per il campo di Lipa. Dobbiamo tenere sotto controllo le nostre strutture di detenzione a Lipa e nella regione, il che significa che i falsi richiedenti asilo devono essere trattenuti fino al loro ritorno nei Paesi di origine. Anche in questo caso, replicheremo questo progetto in altri Paesi della regione”.
Meritano una specifica attenzione le parole del Várhelyi laddove afferma che “we need to keep our detention facilities in Lipa and the region”, dando dunque come già esistente tale “nostra struttura di detenzione a Lipa”, quando in realtà Lipa è ora solo un centro di transito temporaneo. Tale forma di scivolamento del linguaggio non deve stupire perché esso semplicemente svela l’evoluzione del campo “liquido” di Lipa verso una nuova forma di campo, quella di un centro di detenzione. Una finalità solo apparentemente contrastante con le finalità iniziali ma in realtà già occultate nella iniziale indeterminatezza giuridica con cui il campo è sorto e si è sviluppato.
Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni. Già componente del direttivo dell’Asgi, è presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste
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