Interni
L’impresa di una donna migrante
In Italia sono 104mila quelle che conducono aziende. Il fenomeno salva alcuni settori dell’economia, dal commercio all’artigianato —
Al numero 2 di via Caccianino a Milano s’intreccia, insieme a cotone, vetro e seta, la trama di un viaggio di quasi 3mila chilometri. Dalle case di dieci donne libanesi partono spille, camicie e pochette dirette all’indirizzo della stilista Mona Mohanna, e da qui raggiungono i negozi di abbigliamento italiani.
A pochi chilometri di distanza, nel suo negozio bianco e dorato in corso Plebisciti 12, sempre a Milano, Dora Pullen sistema le parrucche di capelli naturali, mentre racconta di quanto l’affascinava entrare, da bambina, nel negozio di acconciature della zia a Benin City, in Nigeria.
Intanto, in una “stanza del sale”, nel centro di Monza, Diana Maria Nascu parla dell’arte del camaleonte, che ha fatto propria 13 anni fa, quando ha deciso di lasciare Turda, in Transilvania.
Queste imprenditrici sono tre delle 104mila donne straniere oggi titolari di un’attività in Italia; di queste, più di 80mila provengono da Paesi extra europei, e rappresentano quasi il 6% del totale delle imprese femminili nel Paese. Un numero in crescita, secondo i dati della Camera di Commercio di Milano, aggiornati al 30 settembre 2013: le imprese con titolare straniera sono aumentate del 4,5% rispetto al 2012. E, stando all’Unione artigiani, a Milano il saldo tra imprese artigiane femminili cessate e avviate è positivo grazie alle immigrate: le donne artigiane italiane calano del 3%, tra il 2011 e i primi 6 mesi del 2013, mentre quelle straniere aumentano quasi del 10%.
È difficile stimare quanto producano le imprese gestite da donne migranti. I dati del Dossier statistico sull’immigrazione della Caritas spiegano però che il contributo al Pil delle imprese con titolare o maggioranza di soci nati all’estero -oggi 480mila, il 5,4% in più rispetto al 2011- è di circa 7 miliardi di euro. È quindi ragionevole pensare che le imprese condotte da donne straniere in Italia producano circa 1,4 miliardi di euro.
“Aprire un’impresa è per gli immigrati una risposta alla crisi e alla disoccupazione, ma anche una reazione alla mobilità bloccata -spiega Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università Statale di Milano e direttore della rivista “Mondi migranti”-. Gli extra comunitari che non hanno possibilità di carriera, perché il loro titolo di studi non è riconosciuto oppure per le difficoltà linguistiche, esclusi dal capitalismo convenzionale s’inventano un loro capitalismo”. Questo impiego, chiamato “lavoro autonomo di rifugio”, contraddistingue ad esempio le attività di money transfer, le macellerie islamiche, i call center.
Il dinamismo imprenditoriale degli immigrati -e, nello specifico, delle immigrate- è in parte favorito da un cambiamento nella struttura stessa della nostra società: “Le famiglie appartenenti alla borghesia autonoma italiana cercano di indirizzare i propri figli verso occupazioni diverse -spiega Ambrosini-, e così buona parte delle imprese non ha successori”. I posti vacanti sono allora occupati da chi è in cerca di una promozione sociale: ieri erano i meridionali, oggi sono gli immigrati. “Mestieri come il calzolaio o il fruttivendolo dei mercati rionali sopravvivranno quindi solo se saranno ereditati da loro” aggiunge il professore di Sociologia delle migrazioni.
Secondo Ambrosini esistono due tipi di imprenditrici immigrate. Da un lato donne con elevato capitale umano e sociale, istruite e benestanti, spesso sposate con italiani, che avviano imprese basate su un investimento di denaro; dall’altro, “donne che partono da condizioni economiche svantaggiate e che, dopo un’esperienza come dipendenti, mettono a frutto le capacità acquisite, spesso tipicamente femminili”, aprendo quindi ristoranti o negozi di alimentari, centri estetici, stirerie. “Attivano servizi rivolti alle loro connazionali oppure a un mercato più ampio, incuriosito da gusti e profumi dell’altrove -aggiunge il professore-, riuscendo a tramutare una diversità culturale in risorsa economica”. Circa il 70% delle imprenditrici straniere (una quota sul totale che supera l’8%) apre un’attività nel settore terziario: fra le circa 86mila attività individuali registrate, il settore che offre maggiori possibilità d’impiego è quello commerciale; seguono le attività manifatturiere, alloggio e ristorazione.
Le imprenditrici straniere sono in genere donne con una certa anzianità migratoria: in Italia da diversi anni, conoscono bene la lingua e sono ormai ben integrate nella società.
Diana, 44 anni, ha lasciato la Romania nel 2000, ed è arrivata a Reggio Emilia con in tasca una laurea in Economia e commercio. “Ho fatto per 3 mesi la cameriera, poi la baby sitter e la receptionist; dopodiché sono stata assunta in uno studio notarile, ma quando sono rimasta incinta, nel 2005, ho perso il lavoro. Da quel momento trovare un’occupazione è stato difficile”. Poi, nel 2008, l’idea di aprire una “stanza del sale”. Ci è riuscita nel novembre 2012, con il sostegno della sua famiglia: “Non ho chiesto alcun prestito perché sapevo che le banche non mi avrebbero aiutato; non perché sono straniera, ma perché non avrei potuto offrire garanzie”. Le donne comunitarie che hanno avviato un’attività in Italia sono quasi 23mila. Fra queste, il 36% è di nazionalità romena: solo in Lombardia sono 1.145, il 46% del totale.
I clienti del negozio “Respiro” pagano 20 euro per un trattamento di 40 minuti: con i piedi immersi nel sale rosa respirano l’aria purificata, tentando di curare l’insonnia o la dipendenza dal fumo. Nell’inverno 2012 è riuscita a coprire i costi per la ristrutturazione dei locali, e ora guadagna circa mille euro al mese, ma le tasse e le spese di manutenzione si mangiano gran parte del ricavo. Diana però è fiduciosa, e pensa a un futuro più prospero, mentre parla di un “progetto olistico”, e dell’eventuale condivisione dei locali con un osteopata.
Dora Pullen ha lasciato Benin City molti anni fa: ha viaggiato in Nigeria, in Sud America e in Europa, e poi ha messo le radici in Italia nel 1996.
Dopo aver fatto la rappresentante per un’azienda e dopo aver avuto un bambino, nel 2011 Dora ha deciso di aprire “Golden Age” (www.goldenagehairextensions.it), negozio in cui vende parrucche su misura con capelli naturali e applica extension alle clienti. È oggi una delle 4.181 titolari di impresa nate in Nigeria, la terza comunità -se si esclude la Svizzera- di imprenditrici extra comunitarie in Italia (63mila in Italia) dopo Cina e Marocco.
Dora ha investito tutti i suoi risparmi per aprire “Golden Age”: ora ha la sua clientela e, nonostante la crisi, lavora abbastanza bene.
Nel 1989, a 19 anni, Mona Mohanna è partita dal Libano con la chiara idea di studiare moda. Dopo aver frequentato la scuola di Progettista d’abbigliamento a Reggio Emilia, si è trasferita a Milano per un master in Fashion design alla Domus Academy (www.domusacademy.it). E intanto si guardava intorno: “Con pigiama e cappuccino disegnavo e cucivo i miei pezzi, e andavo a mostrarli ai negozi”. Poi, nel 1998, alla mostra “Una coperta per l’inverno”, nel castello di Belgioioso a Pavia, ha venduto in 4 giorni tutti i suoi capi, ricavando 2 milioni di lire. Nel 2000 ha così deciso di avviare una sua attività: “Oltre al sostegno economico di alcuni amici libanesi, ho ottenuto un prestito di 15 milioni di lire da una banca, senza che avessi alcuna garanzia da offrire”. Il suo biglietto da visita fu la tesi sulla “Seduzione controllata”, pubblicata da 3 riviste del settore. “Ma erano tempi diversi, e oggi ricevere un prestito sarebbe molto più complicato”.
Il desiderio di Mona era portare in Italia la sua cultura: “Ho realizzato la mia prima collezione con lino italiano ma ricamato da donne palestinesi in Libano, mentre per gli accessori utilizzavo vetri di Damasco e fili di seta”. La boutique Surimono di corso Monforte, a Milano, è stato il suo primo cliente.
Una tra le 66 imprenditrici libanesi in Italia, Mona dà oggi lavoro a dieci persone tra cui sarte, cucitrici e ricamatrici che, in Libano, realizzano ogni pezzo a mano: il costo va dai 10 euro delle spille a 250 euro dei cappotti più lavorati. Per cucire una camicia, Mona paga 10 dollari, ma il compenso varia in base al tempo impiegato, al numero degli elementi e delle decorazioni e ai materiali che provengono da Beirut. Spesso il lavoro si concentra in una stagione, e quindi capita che in un mese “le mie ragazze”, come le chiama Mona, guadagnino anche 2mila dollari; “ma io assicuro loro una specie di stipendio mensile pari a 500 dollari, in modo che possano sempre ricevere un compenso fisso”. Prima che scoppiasse la guerra in Siria, Mona dava lavoro anche ad alcune ragazze siriane, 3 delle quali sono riuscite a passare il confine col Libano, altre sono scappate. I suoi occhi si fanno più scuri. “Prima compravo il filo per le collane a Damasco, ma ora i fornitori non ricevono più fili, vetro e il tessuto tradizionale a righe, perché gli stabilimenti sono stati distrutti. Non sappiamo nemmeno se la Siria tornerà a produrre i suoi materiali più preziosi”.
Le tre imprenditrici ricordano i loro primi anni in Italia con serenità. “Nei primi tempi -racconta Dora- ho dovuto farmi conoscere, ma questo succede con qualsiasi novità; bisogna dare il massimo”. Diana, anche se ricorda qualche episodio sgradevole, non si sente discriminata, forse perché, dice, “ho imparato a non sentire e non vedere”. Mona racconta invece che se dal punto di vista umano non avrebbe potuto capitarle di meglio, nella sua carriera ha pagato un grande costo “a causa” della sua cultura: “Non ho potuto fare la stilista per le aziende di moda perché porto il velo”. Ma è passato del tempo. E Mona oggi chiama amici molti dei suoi clienti.
Ogni anno, spiega il professore Ambrosini della Statale, il numero delle imprese con titolare straniero aumenta di circa 20mila unità: “Aprire la partita Iva è per gli immigrati, ma anche per i cittadini italiani, un’alternativa alla disoccupazione”, anche nei periodi di crisi. Una crisi che, ne sono convinte Diana e Mona, colpisce allo stesso modo italiani e stranieri.
Si cerca allora qualcuno con cui dividere lo spazio, ad esempio. Oppure si tenta di contenere l’acquisto dei materiali. Come da qualche anno è costretta a fare anche Mona, perché se fino all’anno scorso il prodotto meno caro che vendeva costava all’ingrosso 15 euro, ora i negozi le chiedono prodotti che possano vendere a 15 euro al dettaglio.
“Rispetto ai primi anni il mio fatturato si è dimezzato, e se prima avevo cento clienti, ora ne ho una quarantina, anche perché molti hanno chiuso”. Quest’anno la stilista non ha potuto fare il suo ordine annuale di seta Shantung, pari a circa 12mila dollari, e probabilmente così sarà anche per il 2014. Il suo prezzo è infatti raddoppiato: Mona la paga in India il corrispettivo di 7,50 euro, esclusa l’Iva e i costi dello sdoganamento. “Prima facevo realizzare alle ragazze certi pezzi all’infinito, anche senza che ci fossero ordini -aggiunge- perché la mia priorità è sempre stata farle lavorare il più possibile, ma ora non me lo posso più permettere”, perché i clienti ordinano i pezzi con il contagocce.
Mona oggi si occupa della realizzazione dei campioni e della ricerca dei materiali, partecipa a fiere come il Salone internazionale della casa di Milano, e -ovviamente- tiene i contatti con i clienti. “In questi ultimi anni di crisi faccio però il one man show”, come nei primi mesi della sua attività. Ma allora, dopo una prima fase d’impiego tuttofare, il lavoro ha cominciato a prosperare; “e se sarà così anche questa volta, allora ci sarà un nuovo inizio”. Quando Ae l’ha incontrata, Mona sorrideva. —