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L’Europa è dei tecnici (di parte)
Gli “expert group” aiutano i funzionari della Commissione a formulare le Direttive. Oltre la metà degli esperti, però, viene dalle imprese —
Il primo novembre si è insediata a Bruxelles la nuova Commissione Europea guidata da Jean-Claude Junker. Le urne hanno dato al suo partito, il Partito popolare europeo (PPE) e al suo programma la maggioranza relativa, così il Parlamento europeo lo ha designato presidente. Nel complesso meccanismo delle istituzioni comunitarie, però, non è lui l’ingranaggio principale: le decisioni politiche, a Bruxelles, si prendono lontano dalla Commissione. “Da dieci anni si è cominciato ad esternalizzare ai ‘tecnici’ il compito di produrre contenuti, sostenendo di non avere abbastanza competenze per gestire tutto all’interno”, dichiara Pascoe Sabido dell’organizzazione non governativa Corporate Europe Observatory, che monitora la capacità delle lobby di influenzare i decisori politici (corporateeurope.org/power-lobbies). In pratica, secondo Sabido, la politica si affida a consulenti per legiferare. Sono loro che producono i testi su cui si basano le prese di posizione della Commissione europea, le direttive, le leggi. “Solo che i pareri tecnici non sono mai neutrali. Sono sempre orientati”, ragiona Sabido. Propendere per una tipologia di “tecnico” piuttosto che per l’altra diventa una questione politica. E oggi, in Europa, i tecnici più presenti provengono dal mondo delle corporation, delle imprese.
Per questo, il 23 settembre una squadra di europarlamentari ha proposto di congelare parte delle risorse destinate alla formazione dei nuovi gruppi tecnici, gli “expert group”, in totale 3,8 milioni di euro. Il motivo è proprio la sovrarappresentazione del mondo delle grandi multinazionali, che relegherebbe in un angolo gli altri settori. Ai tavoli dei gruppi infatti siedono anche esperti che provengono dalla società civile e dalle università che abbiano titoli in grado di dimostrare la loro competenza in certe materie, ma oltre la metà degli esperti è reclutato dal mondo imprenditoriale, con punte che superano il 90% in alcuni settori.
Nel 2012 gli expert group erano 900 circa: ne sono nati per contrastare l’avanzata della crisi economica, per armonizzare la tassazione in Europa, per promuovere la mobilità sostenibile, per la diffusione della banda larga. Un elenco sterminato. Ne esistono di “formali”, convocati dalla Commissione nel suo complesso, e “informali”, costituiti per volere di singoli dipartimenti. Temporanei o permanenti, hanno durate diverse a seconda del motivo per cui vengono convocati.
La “filiera” che porta alle nomine degli experts è codificata: tutti i componenti sono iscritti all’albo degli esperti dell’Unione europea. Le regole d’ingaggio, però, non tengono conto della sfera d’interesse rappresentata dai singoli. I requisiti chiesti sono sempre personali e non riguardano chi l’esperto rappresenta.
Per la selezione, inoltre, ci può essere un bando pubblico, che ha spesso il difetto di avere una durata troppo breve, oppure la nomina del Commissario europeo responsabile di un dipartimento. Nonostante questa pratica sia sempre meno utilizzata, sindacati e associazioni pro trasparenza segnalano in un rapporto -che è stato consegnato alla Garante dei diritti dei cittadini europei- che il 54% degli esperti è composto da membri legati a grandi multinazionali private. Il dato ha spinto gli europarlamentari alla proposta del congelamento del budget, come già hanno fatto nel 2011 (all’epoca il fondo per gli esperti era di 2 milioni di euro). Prima firmataria è la portavoce dei Verdi europei, la tedesca Helga Trüpel: “Concedere a chi fa consulenze per interessi di business o perché lobbista di una grande multinazionale di assumere un ruolo nei processi decisionali porta con sé notevoli rischi -spiega ad Altreconomia-. Quando danno pareri ‘di parte’ alla Commissione gli expert group rischiano di orientare male i futuri regolamenti dell’Unione”. Parole di condanna, che suonano come una canzone già sentita: è dal 2007, appena sono nati gli expert group, che le Ong a difesa della trasparenza ne hanno criticato la creazione. Sempre invano.
“Nell’adottare decisioni, il funzionario rispetta il giusto equilibrio tra gli interessi dei singoli e l’interesse pubblico in generale”, recita il sesto articolo, comma due del Codice europeo di buona condotta amministrativa. Allo stesso modo, un parere dato alla Commissione deve essere bilanciato per rappresentare l’interesse di tutti gli attori di un settore. La garante dei diritti dei cittadini europei (Ombudsman) Emily O’Reilly a maggio ha lanciato un’investigazione per evidenziare gli eventuali limiti degli expert group e per modificarne gli assetti. Ha raccolto 57 risposte di enti che partecipano al lavoro dei gruppi, e che pongono le loro riserve. Nel 2015 tradurrà questi rilievi in un elenco di raccomandazioni che la Commissione sarà obbligata ad adottare.
Secondo i sindacati, così come sono gli expert group sono ininfluenti o, peggio, dannosi. Un esempio è il report finale del gruppo che doveva studiare i titoli finanziari europei, gli Eurobond. “L’obiettivo finale del gruppo era importante, ma molti degli appartenenti erano contrari all’idea fin dall’inizio. Così il report finale ha affossato l’idea, senza produrre risultati apprezzabili”, commenta Pascoe Sabido.
Paolo Centore è avvocato tributarista e professore all’Università di Parma. È membro del VEG, il gruppo di esperti che lavora a una regolamentazione unica sull’Iva, attivo dal 2012. Più di otto membri su dieci rappresentano interessi privati, spiega il rapporto consegnato dai sindacati alla O’Reilly. Il resto del componenti è suddiviso tra Ong (un 5%), associazioni professionali (un altro 5%) e accademici e piccola media impresa (per il restante 4%).
Secondo i sindacati l’inadeguatezza del gruppo è macroscopica. Non per Centore: “La composizione risponde esattamente alla necessità di esaminare con profitto questioni altamente specialistiche, spesso giuridiche”, dice ad Ae. “Per tale motivo, a mio parere -prosegue-, le ong non sono interessate a tale attività e non fanno parte di questo gruppo di lavoro”. Centore concorda con i sindacati sull’importanza dei gruppi: “Non saprei dire se il VEG è la voce più ascoltata dai Servizi della Commissione. Posso invece confermare che essa è ricercata ed ascoltata”. L’informalità degli incontri e l’estraneità agli ingranaggi della Commissione sono le caratteristiche più preziose del lavoro dei gruppi di esperti, secondo Centore. Se riforma ci dovrà essere (come chiedono gli europarlamentari), che almeno non ingessi in regole troppo rigide gli expert group.
Per Pascoe Sabido di Corporate Europe, per quanto ascoltata, la voce degli esperti in materia di tassazione non è stata in grado di migliorare le regole del gioco. Eppure il 23 aprile 2013 l’allora commissario alla Tassazione Algirdas Šemeta ha lanciato la Piattaforma per la nuova governance in materia fiscale, spinto dagli scandali emersi con la mega inchiesta internazionale Offshore Leaks. L’inchiesta internazionale aveva svelato i nomi dei più grandi evasori fiscali del pianeta e la necessità di trovare strumenti migliori per tracciare gli evasori. Nell’elenco degli esperti si leggono i nomi di associazioni come Euro Investors, Insurance Europe, European Fund and Asset management association Ltd, International swaps and derivate association e European Savings banks group. Tutte associazioni di categoria, che proteggono banche e assicurazioni, non i consumatori né le aziende. E infatti alcune domande rivolte al gruppo sono rimaste inevase. Per esempio, alla seduta del 16 ottobre 2013 si chiedeva ai membri se fosse necessario indicare misure per rendere applicabili ovunque in Europa le raccomandazioni prodotte dal gruppo. Nessuna risposta.
Il settore dove la consulenza degli esperti è più delicata, però, resta senz’altro l’agricoltura, settore che disporrà -tra 2014 e 2020- di poco meno del 40% del budget dell’intera Commissione. Ciò è evidente anche per la Ombudsman Emily O’Reilly, che quando ha lanciato l’investigazione per gli expert group ne ha aperta una specifica per il settore agricoltura. Infatti, nonostante già nell’aprile del 2014 fosse stato lanciato un bando per pareggiare la rappresentatività degli interessi nei 14 gruppi di consulenti del Dipartimento, lo squilibrio è rimasto. La loro composizione è stata fissata nel 2013, ma finora non hanno ancora svolto nessun incontro, anche a causa delle polemiche legate alla loro composizione. Un esempio per tutti: nel gruppo di consulenza “Aspetti internazionali sull’agricoltura” 22 membri su 58 appartengono a due consorzi di associazioni, Comitato delle organizzazioni professionali agricole dell’Unione europea (COPA) e Confederazione generale delle cooperative agricole dell’Unione europea (COGEPA). Wwf e Slow Food, invece, hanno tre membri in due.
Oltre agli expert group, la filosofia dell’esternalizzazione ha ormai contagiato la Commissione anche a livelli più alti, quelli dove nascono proposte di legge e direttive, ad esempio. La giustificazione è sempre l’impossibilità di avere tutte le conoscenze in casa. “Il risultato è che la Commissione mantiene in carico la gestione di pratiche burocratiche e contratti. Il resto viene tutto da fuori”. S. da 13 anni lavora come consulente alla Commissione europea. Non come membro degli expert group, bensì come collaboratrice esterna che partecipa ai programmi comunitari. S. è una delle ghost writer della Commissione, un’esperta che produce testi base per le decisioni politiche comunitarie, senza che il suo nome compaia mai in calce. Ormai conosce in maniera profonda tutti i retroscena del sistema europeo. Come la presentazione dei requisiti: plichi di carta da allegare alla domanda, ma poi nessuna prova concreta per misurarli.
“La filiera della selezione è troppo lunga: non c’è modo di garantirne trasparenza e qualità”, aggiunge. Si parte dai Framework contract, contratti-quadro lanciati dalle direzioni generali dei singoli dipartimenti (quello per il prossimo quinquennio si è chiuso a settembre perché il comparto ricerca viaggia su binari diversi rispetto alle legislature, ndr). Se li aggiudicano in media 10-12 grandi società di consulenza. Tra questi ci sono DAI (ex Htspe), Saco Consortium, Ibf International consulting, ADE, Participe e poche altre. Ognuna di queste società “madri” controlla 8-10 società di media grandezza, che pescano da un bacino di esperti che sono inseriti nel loro portfolio. “Le mega società che partecipano di solito sono quattro a turno -racconta S.-, scelte a caso attraverso un’estrazione elettronica”. Ciascuna di queste quattro società lancia poi un bando interno, a cui partecipano le 8-10 società consorziate per cercare il curriculum migliore. Così, ogni società-madre partecipante, si presenta alla sfida con un esperto. Continua S.: “La Commissione poi sceglie a chi affidare il lavoro in base ai quattro, cinque curricula finali”. Una volta avuto l’appalto, la ricerca dura in media tra i sei mesi e un anno, al termine dei quali ci si incontra per una o due volte con i membri della Commissione che ha lanciato il bando e una ristretta selezione di funzionari che rappresentano gli Stati membri più coinvolti dal tema trattato nella ricerca. Ovviamente, sono rari i casi in cui i rappresentanti delle istituzioni europee riescono ad andare a fondo nell’analisi dei contenuti proposti. Conclusa la trafila, il testo viene mandato a Consiglio europeo e Parlamento in discussione. “Spesso, però, invece che andare a intergruppi di europarlamentari, passano per i gruppi di esperti, selezionati se va bene seguendo le stesse regole con cui sono selezionata io, altrimenti nominati”. E così il cerchio si chiude. —