Ambiente / Reportage
Lettera da Moena, dove una “piccola Vaia” ha sconvolto ancora i boschi delle Dolomiti
Il 18 luglio una tempesta di vento e grandine ha colpito dall’Altopiano di Asiago alla Val di Fassa. Centinaia di migliaia di piante a terra e una selvicoltura che mostra fragilità. Come nel 2018. “Il bosco è stato letto come sommatoria di legname e non come ecosistema complesso”, osserva Luigi Casanova, già custode forestale
Moena, Trento. Intorno alle cinque del pomeriggio, turisti e residenti sono sconvolti dal caldo anomalo, umido, asfissiante, si passano le mani sui volti, sbuffando e cercando un po’ d’ombra. Si sono appena toccati i 30 gradi: a 1.150 metri di quota, nel cuore delle Dolomiti, il cielo è terso, celeste. Passano venti minuti e lo scenario cambia improvvisamente. Tutto diventa tetro, il cielo è coperto, i nuvoloni portano oscurità, nelle abitazioni si accendono le luci. Il vento si impone come protagonista, soffia feroce, dapprima da Nord, poi una corrente di qualche minuto arriva da Ovest, e ancora riprende nel buio quasi totale a spingere da Nord.
È lo scenario che ha aperto l’arrivo della tempesta Vaia il 30 ottobre 2018, alle otto della sera. La tempesta Vaia, originatasi nel Mar Tirreno dopo un lungo autunno siccitoso e caldo, con il Mediterraneo sempre più bollente, alimentò i venti provenienti dall’Africa verso Nord. Questi si scontrarono con una massa di aria fredda in quota proveniente da Nord. Il risultato fu drammatico, inatteso sia dalle popolazioni locali sia dai servizi forestali. Nessuno si sarebbe mai aspettato che un simile evento potesse avere luogo nelle Alpi del Sud. Certo, lo si sapeva, sempre sottovalutando, che in Francia, Svizzera, Austria, Repubblica Ceca, Belgio Svezia e in Polonia dal 1990 in poi diverse tempeste di vento avevano provocato anche fino a 240 milioni di metri cubi di schianti nelle foreste (Lothar, 1999, ma anche molte altre prima e successive). Ma eravamo convinti che l’Italia fosse protetta dalla grande catena alpina, che le foreste erano una barriera che nessun evento avrebbe mai superato. Ne eravamo certi, noi abitanti delle Dolomiti.
Ma quando alle sei del mattino del 30 ottobre siamo usciti, per lavoro o per accompagnare i nostri amici animali nella prima passeggiata, mentre filtrava una debole luce autunnale e si levavano lente persistenti nebbie e foschie esuberanti di umidità, nonostante i sibili, meglio, le urla del vento della notte, mai avremmo immaginato di trovare le nostre foreste stese a terra, con le piante schiantate con le radici alzate in aria in segno di resa o recise a metà tronco.
Ricordo le lacrime di tanti residenti che incontravo, io stesso sconvolto, eravamo increduli nel dover apprendere uno scenario tanto desolante: la sconfitta della foresta, inimmaginabile. Pochi dati. Tra Veneto, Lombardia, Trentino-Alto Adige, provincia di Belluno e Vicenza, oltre 10 milioni di metri cubi di schianti, circa 16 milioni di piante a terra, 42mila ettari di bosco sparito, i venti avevano soffiato, in direzioni diverse, tra i 150 e 200 chilometri orari. Le piante erano incrociate tra loro, come abbracciate nel tentativo disperato di difendersi, incroci con sbalzi dal terreno alti fino a dieci metri.
E poi 2021, 2022 e oggi 2023 impotenti, come allora, dover certificare tra i 15 e i 20 milioni di metri cubi di abeti rossi morti a causa dell’attacco prevedibile e incontrastato di un umile insetto lungo tre millimetri, il bostrico (Ips typographus). Piante seccate per distese a noi sconosciute, settori di foresta che ancora oggi rompono il fraseggio della classica pecceta alpina sempreverde.
Martedì 18 luglio 2023 si è verificato un evento simile, in proporzioni ridotte. Del resto, anche se non se ne parla, era accaduto con identica dinamica già nella terribile alluvione del novembre 1966. Solo che allora la temperatura media del Mediterraneo era di 1,5 °C inferiore all’ottobre 2018, 2 °C inferiore all’estate di quest’anno. Quindi, nel 1966, l’energia scatenata dal vento era minore, perlomeno non quantificabile in quanto non erano diffusi gli strumenti di rilevamento della velocità dei venti.
La tempesta di vento e grandine del luglio 2023 ci riporta a Vaia. Come danni si auspica in dimensioni minori di allora. Le aree colpite sono le stesse; Altopiano di Asiago e della Marcesina, l’Agordino, l’Ampezzo e il Comelico nel bellunese, le valli di Fiemme, Fassa e Primiero nel Trentino, val d’Ega, Badia in Alto Adige. Centinaia di migliaia di piante a terra, un’intera situazione e storia della selvicoltura che dimostra fragilità, nonostante la riconosciuta buona fede di quanti l’avevano sostenuta: piantumazioni di boschi artificiali, coetanei, monospecifici (abete rosso, qualche sporadico larice), tutto finalizzato alla produzione. Il bosco è stato letto come sommatoria di alberi e metri cubi di legname, poche volte percepito e quindi gestito come ecosistema complesso capace di donarci biodiversità, sicurezza, assorbimento della CO2, capace di ospitalità rivolta a una macrofauna complessa, a una microfauna, batteri compresi, ancora poco conosciuta, il tutto che interagisce con i sottosuoli e il patrimonio di licheni, muschi e funghi, capace di legare i minerali del sottosuolo con la funzione delle acque e la luce del cielo, un ecosistema che ci è ancora oggi in gran parte sconosciuto, che alimenta fertilità.
Quali riflessioni proporre? Da parte nostra, presunti gestori di un bene tanto complesso qual è una foresta o un bosco, anticipiamo la necessità di un investimento in umiltà.
In secondo luogo è doveroso investire nella conservazione. È vero, il 34% del suolo italiano è coperto da boschi, ma si tratta di boschi poveri, fragili, lo dimostrano le Dolomiti e peggio ancora certe gestioni dei cedui negli Appennini. Prima di sostenere ulteriori pianificazioni tese all’utilizzazione economica è bene riconvertire la pianificazione in prospettiva dei cambiamenti climatici in atto. Per avere sicurezza e biodiversità abbiamo bisogno di foreste vetuste, adulte, disetanee e di superare monospecificità troppo diffuse. Abbiamo bisogno di una pianificazione multidisciplinare che sappia offrire valore a tutte le funzioni di un ecosistema tanto complicato e per lo più sconosciuto. Abbiamo bisogno di tanta ricerca e meno, molto meno, di strade forestali e frammentazione dei sistemi dovute ad aree sciabili o elettrodotti, e ancora a strade. In questo lavoro non ci aiuta l’aver soppresso nel 2017 il Corpo forestale dello Stato, una iattura che oggi sembra irrecuperabile nella misera politica che giornalmente ci viene proposta. Certo, le foreste non hanno i nostri tempi, non ci ascoltano nel seguire i recuperi di equilibri tutti loro. Agiscono d’impulso, con violenza diremmo noi. La loro reazione, sia questa dovuta al vento o ad attacchi di parassiti, è la risposta anche aggressiva a come ci siamo comportati noi, umanità nei confronti di uno straordinario patrimonio.
Abbiamo a disposizione ancora tempi brevi per recuperare e garantire alla vita umana un futuro anche in montagna, grazie alla forza del patrimonio forestale. Ma dobbiamo agire subito, affiancando il lavoro delle nostre università e prestando meno attenzioni a quanti, sempre più spesso, leggono la foresta come insieme di legname. Da sfruttare e peggio ancora da bruciare in miopi politiche sulle biomasse.
Luigi Casanova (1955), bellunese, di professione Custode forestale nelle Valli di Fiemme e Fassa e ora in pensione, è una voce storica dell’ambientalismo. Il suo impegno sociale è nato nell’antimilitarismo e nel Movimento Nonviolento. È stato presidente di Mountain Wilderness Italia. Per Altreconomia ha scritto “Avere cura della montagna” (2020) e “Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026. Il “libro bianco” delle Olimpiadi invernali” (2022)
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