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Legge sulla tortura, tra passi avanti e passi indietro
Il 10 giugno scadono i termini per la presentazione degli emendamenti alla contestata proposta di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano. Inadempiente da 26 anni, il nostro Paese rischia però di adottare un testo per certi versi profondamente diverso da quello della Convenzione Onu cui si appella. Dalla prescrizione al fondo per le vittime, fino alle motivazioni stesse del delitto.
L’intervista ad Alessio Bruni, membro italiano del comitato Onu contro la tortura
Il 10 giugno è un giorno importante per la legge italiana sulla tortura in discussione al Senato. Alle 18 di mercoledì, infatti, scadranno i termini per la presentazione degli emendamenti da parte dei membri della commissione Giustizia e si capirà dunque se, come e quanto il testo approvato il 9 aprile scorso alla Camera potrà essere modificato, e in quali passaggi. Amnesty International, Antigone e il senatore Luigi Manconi hanno convocato una conferenza stampa ad hoc proprio quel giorno per “ribadire l’urgenza dell’approvazione del reato”, difendendo in sostanza l’impostazione del discusso testo di Montecitorio: dove il delitto è comune e pure prescrittibile.
A proposito dell’iniziativa delle associazioni -domenica scorsa alla Repubblica delle Idee di Genova- è intervenuto nuovamente Enrico Zucca, pubblico ministero del processo Diaz. “Amnesty International -ha dichiarato- ha di recente elencato una serie di modalità di tortura in tutto il mondo. Dal 2013 se ne sarebbero sviluppate e praticate 27, di queste perlomeno 8 non sarebbero ricomprese nella definizione di tortura che il Parlamento ha approvato. Per quale ragione?”. Un’insufficienza grave che, secondo il sostituto procuratore del capoluogo ligure, andrebbe sanata “tornando al testo della Convenzione Onu sulla tortura”, che prevede il reato specifico del pubblico ufficiale e un fondo a favore delle vittime della tortura, che dalla legge in discussione è stato peraltro espunto.
Il punto è che il blocco più rappresentativo delle associazioni impegnate in questo campo si è stretto intorno alla compromissoria legge della Camera, dando vita ad una situazione che Zucca non ha esitato a definire “drammatica”: “il Parlamento deve approvare una legge buona. Chi ricopre quella carica, chi serve i cittadini, non può dire ‘è il meglio che possiamo propinare’. Se il Parlamento non è in grado di approvare una legge che sia quella che le Convenzioni ci impongono e richiedono, beh, il Parlamento si assuma la responsabilità e non approvi questa legge”. A queste ed altre parole di Zucca –come è spiegato in questo appello– ha fatto seguito la minaccia di un’azione disciplinare del ministro della Giustizia, su proposta del capo della Polizia, Alessandro Pansa.
Ed è in questo confuso e paradossale dibattito -dove le associazioni difendono un reato che le stesse vittime della Diaz contestano mentre le forze dell’ordine ne chiedono persino il ritiro- abbiamo chiesto ad Alessio Bruni, membro italiano del Comitato Onu contro la tortura, una valutazione a titolo personale della legge in discussione al Senato.
Professor Bruni, che idea si è fatto della legge approvata dalla Camera dei deputati?
In via generale la ritengo un bel passo avanti, anche perché questa questione era in sospeso da anni (1989). L’accelerazione come sapete è avvenuta in aprile sotto l’influenza della sentenza della Corte europea dei diritti umani riguardo al caso del G8. E si è spinto proprio perché la Corte nelle motivazioni del giudizio ha stigmatizzato la mancanza di una legislazione specifica e appropriata in Italia per definire il crimine. Dunque è un passo avanti e spero che la stessa celerità continui.
Alcuni osservatori -tra gli altri Lorenzo Guadagnucci, giornalista autore del libro "sTortura" e vittima della Diaz, e il pm del processo Enrico Zucca- evidenziano però criticità importanti nel testo, che si discosta non poco dalla Convenzione Onu cui invece si richiama.
Effettivamente emergono alcune cose che non sono proprio in linea con la Convenzione delle Nazioni Unite. Alcune sono positive, su altre forse ci sarebbe da discutere. Parto dal delitto qualificato come “comune” (il famoso “Chiunque…”): io non vedo tutto questo svantaggio perché è vero che c’è il delitto comune e non quello specifico ma è altrettanto vero che c’è poi l’aggravante appropriata per chi lo esercita in veste di pubblico ufficiale. Il testo va al di là cioè della convenzione -che tratta esclusivamente dei pubblici ufficiali o di chi ne fa le veci- ma questo costituisce a mio avviso un più e non un meno.
Quali sono invece le parti che secondo lei andrebbero migliorate?
Parto dall’articolo 1 della proposta: ritengo che le attuali motivazioni indicate e per cui si commetterebbe la tortura ("al fine di ottenere, da essa [una persona, ndr] o da un terzo, informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose”) sono chiuse, quando invece il Trattato internazionale sulla tortura aggiunge una oggettiva “clausola di apertura” che recita "o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione". Lascia cioè la porta aperta mentre il ddl italiano non lo fa, almeno per quanto posso vedere. Penso ad esempio al caso della discriminazione a danno di un "immigrato clandestino”, che sfuggirebbe dal testo attuale.
Manca poi un riferimento ad un fondo di riparazione per le vittime della tortura. Era a dire il vero in una prima bozza e poi non è stato più portato avanti, non so se per motivazioni finanziarie. L’articolo 14 della Convenzione però fa obbligo agli Stati di prevedere forme di risarcimento e riabilitazione. È un altro punto su cui non ho trovato riscontro.
Manca ancora la clausola della "giurisdizione universale". Nel testo attuale viene sì riconosciuto che non si può invocare l’immunità diplomatica per crimini di tortura. Però poi si prevede che ci sia l’estradizione per il cittadino straniero sul quale pende un procedimento penale o da parte di un tribunale internazionale. È giusto ma è limitativo perché la convenzione stabilisce che se uno Stato ha dei sospetti su una persona che abbia commesso la tortura secondo la convenzione può scegliere l’estradizione ma può anche affermare la propria giurisdizione e appurare se i sospetti sono credibili o meno, se sono cioè sostenuti da prove.
Sono parti che a mio avviso richiedono ancora un po’ di dibattito e miglioramento, soprattutto il primo punto.
Un altro punto contestato è quello della prescrizione. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è netta sul punto ma il testo al Senato non prevede l’imprescrittibilità. Che ne pensa?
Nella proposta di legge la prescrittibilità è raddoppiata e questo è positivo. Dal punto di vista internazionale però la tortura, specie se aggravata, ha dei risvolti tali per cui non dovrebbe essere prescrittibile. Non è nel Trattato, sia chiaro, ma è una tesi avvalorata dagli esperti. Quando noi esaminiamo i rapporti degli Stati -e incontriamo prescrizioni brevi (5 anni) o lunghe (40 anni)- sproniamo ad abolire la prescrizione per un crimine tanto infamante. Il progetto italiano riconosce l’estrema gravità del crimine ma non prevede conseguentemente gli strumenti dovuti. E ciò fa sorgere molti dubbi. Tanti torturatori nella storia si sono nascosti per lunghi anni per poi farla franca grazie alla prescrizione. Se il torturatore merita l’ergastolo -come è riportato nel testo in caso di morte del torturato- perché merita la prescrizione? È un’altra cosa da chiarire.
Lei ora sta esprimendo il suo punto di vista personale, ma il Comitato Onu sulla tortura potrebbe intervenire preventivamente nella fase di redazione del testo di legge, segnalando eventuali manchevolezze a un Paese?
No, il comitato esamina i rapporti periodici che gli Stati hanno il dovere di presentare. Questo testo sarà esaminato quando il rapporto dell’Italia verrà presentato al comitato, anche se l’Italia è un tantino in ritardo visto che doveva presentare il proprio nel 2011. Intervenire prima costituirebbe un’ingerenza negli affari interni. Ogni Stato faccia le proprie leggi, le modifichi e cerchi di migliorarle. Dopodiché faccia un rapporto ogni quattro anni sull’applicazione della Convenzione. Le conclusioni e le raccomandazioni giungeranno in seguito.
Il testo di legge della Camera è concordemente ritenuto un compromesso. È possibile che ciò avvenga in tema di diritti fondamentali?
Quali siano -se vi siano- i motivi degli adattamenti alla realtà nazionale o politica non lo so e non è mio compito saperlo. Quel che è certo però è che al momento dell’esame del rapporto periodico queste motivazioni dovranno essere spiegate e il Comitato dovrà dire allo Stato se le motivazioni sono in linea o meno con le esigenze e gli obblighi del Trattato.
Ultima domanda. All’articolo 10 della Convenzione Onu si fa esplicito riferimento a percorsi di formazione ed educazione del personale civile, militare, medico e dei pubblici ufficiali in materia di tortura. È notizia di questi giorni invece della richiesta del capo della Polizia Alessandro Pansa di un’azione disciplinare a carico del dottor Enrico Zucca, reo di aver ricordato pubblicamente le gravi conclusioni cui è giunta il 7 aprile la Corte europea dei diritti dell’uomo, e cioè che la Polizia ha “impunemente ostacolato l’accertamento della verità” di quei fatti. Ritiene che un atteggiamento del genere -qualora sia peraltro avvalorato dall’assenso del ministero della Giustizia all’azione disciplinare- sia in linea con i principi della Convenzione?
Non entro nel merito, ho letto di questa polemica ma com’è intuibile non dico nulla. Dico solo che la prevenzione e la repressione della tortura è una clausola generale che vale per tutti i pubblici officiali, non è soltanto una questione di formazione delle forze dell’ordine. E che in generale, dei provvedimenti legislativi per la prevenzione e la repressione della tortura sono una garanzia per tutti, incluse le forze dell’ordine, non il contrario.