Opinioni
L’effetto “abuso dell’appello”
Una sentenza, in Italia, non è quasi mai considerata definitiva. I difensori appellano sempre e comunque, minando così la credibilità della giustizia. E l’imputato già condannato può far finta di niente _ _ _
La facilità con cui nel nostro sistema si appellano le sentenze non ha paragoni. L’imputato appella anche se è stato trattato benevolmente o non deve scontare la pena, chiedendo, talora da confesso, un improbabile proscioglimento. Può guadagnare una prescrizione o dilazionare l’esecuzione della sentenza. Non rischia nulla, vale il principio che non può avere un trattamento deteriore. La presunzione di non colpevolezza lo assiste sino alla fine, con eguale forza, anche dopo una doppia condanna. Ogni sentenza non è un passo verso l’accertamento della verità, già in sé rispettabile, ma un atto interlocutorio di poco rilievo, ancor meno dell’opinione di un soggetto autorevole non istituzionale. D’altro lato anche l’accusa può chiedere senza limiti la riforma di un’assoluzione, prolungando per l’imputato il peso del processo. Con tre gradi di giudizio (o di più, se la Cassazione riformando la decisione anche solo per difetto di motivazione, dispone un nuovo giudizio), l’accertamento definitivo, al di là dei tempi, può rivelarsi insoddisfacente, se in questo percorso si collocano giudizi assolutamente contrastanti tra loro. Il nostro sistema, ispirato al modello di processo accusatorio (all’americana, con il confronto paritario delle parti davanti al giudice imparziale e la formazione della prova al dibattimento), ha però mantenuto la possibilità d’impugnazioni che prevedono un secondo giudizio di merito, durante il quale si possono rivalutare le prove già acquisite e pervenire a esiti diversi. Nei tradizionali sistemi accusatori, invece, l’appello è ammissibile entro rigorosi limiti, può fondarsi solo su rilevanti errori di diritto o procedurali, qualcosa di simile al nostro ricorso per cassazione. In quei contesti il giudice del fatto è la giuria popolare che emette un verdetto immotivato, di qui l’impossibilità di rivalutare le prove, salvo un errore di diritto che abbia fuorviato la decisione. L’accusa poi non può fare appello contro le assoluzioni. Si pensa, infatti, che se un giudice ha già ritenuto innocente l’imputato, una condanna in altro processo potrà soltanto dimostrare il dubbio sulla sua colpevolezza, ma non la certezza. Si violerebbe poi il divieto di una doppia incriminazione, per cui non si può mai sottoporre l’imputato a un secondo processo per il medesimo fatto.
Nel 2006 la cosidetta “legge Pecorella”, ispirandosi a questi principi, aveva abolito anche da noi la possibilità per il pubblico ministero di appellare le assoluzioni, divieto dichiarato incostituzionale, perché previsto solo per l’accusa, e quindi in violazione del principio della parità delle parti. Non è facile trovare un equilibrio fra i principi: per questo ogni sistema cerca di venire incontro alle diverse esigenze, talora ammettendo sotto alcune forme ciò che vieta in altre, per evitare risultati contrastanti con il senso di giustizia pur se ottenuti senza violazione di regole formali. Deroghe al divieto di nuova incriminazione sono state recentemente stabilite in Inghilterra, ove si è introdotta -dopo il clamore di casi in cui imputati assolti avevano poi confessato il crimine- la possibilità di rifare il processo in relazione a una serie di gravi delitti, in caso di nuove prove (qui da noi permane integralmente il divieto di un nuovo processo). Negli Usa, per ovviare al divieto di appello, talora un imputato assolto per un delitto secondo la legge statale è poi riprocessato per lo stesso fatto ma in base alla legge federale. Ancor più frequentemente si celebra un secondo giudizio perché la giuria non raggiunge l’unanimità e sovente l’accusa in questa seconda occasione vince. Lo sa bene l’ex governatore dell’Illinois Rod Blagojevich, accusato di corruzione e di aver cercato di vendere il seggio senatoriale vacante dopo l’elezione di Obama alla presidenza. Il procuratore aveva spuntato una sola condanna su 24 accuse, e Blagojevich aveva cantato vittoria. Un anno dopo nuovi giurati hanno visto le cose diversamente, e l’hanno condannato per 17 reati su 20, proprio nei casi in cui la prima giuria si era divisa. Si coglie quindi, anche nei sistemi accusatori più spinti, per i quali l’esito del processo è giusto solo perché è raggiunto in base a un processo equo, l’aspirazione a un risultato che consegua a un accertamento dei fatti secondo il principio della “verità materiale”, come nella nostra tradizione giuridica. Il processo non può essere solo nelle mani dell’abilità o della forza di una delle parti. Altro è l’abuso dell’impugnazione, anche a scopi dilatori, perché contribuisce non alla ricerca del fine essenziale della verità, ma alla perdita di credibilità della sentenza: se questa è sempre provvisoria è in gioco la percezione della capacità del sistema di produrre decisioni giuste. E un imputato a giudizio o già condannato si comporta come se niente fosse. —
* Enrico Zucca, Sostituto procuratore generale a Genova