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L’eco-ansia ci riguarda: gli effetti del climate change sulla salute mentale

In alto, gli studenti marciano per lo sciopero per il clima organizzato a Londra il 20 settembre 2019 - © Extinction Rebellion

Aumentano le persone preoccupate dall’emergenza climatica. Soffrono di eco-ansia, che può comportare malessere e attacchi di panico. Non si tratta di una patologia da curare bensì di una risposta sana e costruttiva a una minaccia reale

Tratto da Altreconomia 225 — Aprile 2020

Agosto 2019, l’Amazzonia è in fiamme. Sarah, studentessa milanese e attivista di Fridays for Future, per una settimana non riesce a uscire di casa in preda ad ansia e attacchi di panico a fronte delle notizie dei continui incendi che, secondo i dati dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe), sono stati 74.155 in un solo mese. L’esperienza di Sarah testimonia una delle possibili manifestazioni di eco-ansia (anche detta ansia climatica), che hanno come caratteristica comune il costante timore della catastrofe ambientale che arriverà. Sempre più frequente tra i giovani, l’eco-ansia non è da considerare una patologia. Infatti “ogni disturbo mentale in relazione all’emergenza climatica è una risposta sana a fronte di una minaccia reale”, afferma Caroline Hickman, professoressa all’Università di Bath (Regno Unito) e psicoterapeuta del Climate Psychology Alliance, organizzazione nata nel 2009 per studiare le ripercussioni sulla salute mentale dei cambiamenti climatici.

“Negli ultimi dieci anni il numero di persone che soffrono di ansia climatica è aumentato gradualmente e ora è un fenomeno diffuso” afferma Hickman. L’eco-ansia rientra nella famiglia dei disturbi d’ansia che sono tra i più comuni al mondo. Secondo lo studio sulla salute mentale e fisica della popolazione mondiale Global Burden of Diseases, condotto da più di 3.600 ricercatori presso l’Università di Washington, negli ultimi 30 anni la diffusione di questo tipo di disturbi è aumentata del 50% circa su tutto il globo, riguardando ormai più di 284 milioni di persone. Lavoro, relazioni interpersonali, condizioni economiche stanno facendo posto agli sconvolgimenti climatici come nuova fonte di preoccupazione.

“Ho conosciuto adolescenti depressi che non vanno a scuola perché si chiedono quale utilità abbia data la minaccia climatica incombente, o mamme che vivono un perenne senso di colpa per aver lasciato ai loro figli un ambiente sempre meno sano e vivibile”, racconta Hickman. “Gli stati emotivi coinvolti includono rabbia, terrore, tristezza, senso di colpa e vergogna”. In diversi paesi europei sono nati gruppi di psicoterapia focalizzati su questa problematica che però è ancora priva di una definizione e assente dai manuali della disciplina.

284 milioni sono le persone che soffrono disturbi d’ansia secondo l’Università di Washington

“L’espressione eco-ansia è apparsa per la prima volta nell’ultimo studio dell’American Psychological Association Mental Health and our Changing Climate (2017)”, racconta Christina Popescu, psicologa sociale dell’Università del Québec a Montréal che sta conducendo la prima ricerca di dottorato sul fenomeno, “ma la disciplina non ha ancora stabilito i criteri discriminanti per identificare coloro che soffrono di questo disturbo”, afferma la ricercatrice che vuole elaborare una scala di misura per la sua valutazione scientifica. Nel novembre 2019, gli ordini degli psicologi di circa 40 paesi nel mondo hanno organizzato a Lisbona un summit internazionale dedicato ai nessi tra salute mentale e riscaldamento globale. “Gli eventi legati al cambiamento climatico possono portare a importanti effetti negativi acuti e cronici sulla salute mentale”, si legge nella risoluzione il cui obiettivo è porre le basi di un’azione concreta per la lotta al riscaldamento climatico.

Caroline Hickman è professoressa presso l’Università di Bath e psicoterapeuta del Climate Psychology Alliance, organizzazione nata nel 2009 per studiare le ripercussioni che i cambiamenti climatici hanno sulla salute mentale. In Europa sono nati gruppi di psicoterapia focalizzati sull’eco-ansia, la cui definizione è ancora assente dai manuali della disciplina

Sempre lo scorso anno, circa 1.000 psicologi britannici hanno firmato una petizione per richiamare l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica sul peso degli effetti psicologici dei cambiamenti ambientali. Ispirandosi a questa iniziativa, il Movimento Psicologi Indipendenti (MoPI) italiano sta formulando una lettera aperta. Promotrice di questa iniziativa è Marcella Danon, psicologa e formatrice, che dirige la scuola di Ecopsicologia Ecopsiché in provincia di Lecco. “In Italia, l’eco-ansia è ancora un fenomeno sommerso: finché non diamo un nome alle cose, non le riconosciamo”, sostiene Danon, che rappresenta nel nostro paese l’International Ecopsychology Society, organizzazione mirata a promuovere la ricerca scientifica psicologica in sinergia con l’ecologia. Senza un riconoscimento del fenomeno, l’eco-ansia è difficilmente individuabile e quantificabile.

Secondo il professor Marino Bonaiuto, direttore del Centro Interuniversitario di Ricerca in Psicologia Ambientale, che ha sede presso l’Università di Roma La Sapienza, “in Italia il tema suscita interesse ma manca un’adeguata definizione e classificazione del problema, con relativa diagnostica e trattamento”. Quella generata dai cambiamenti climatici è “una forma di ansia che ha una fonte chiaramente identificata. Questo tipo di ansia, detta reattiva”, continua il professore, “è utile all’organismo e alla collettività per fronteggiare situazioni più impegnative rispetto al normale andamento degli eventi”. Da manifestazione funzionale all’adattamento dell’individuo, l’ansia climatica “può diventare patologica se permane a lungo e può portare a conseguenze psico-fisiche negative”. La letteratura sugli effetti psicologici degli sconvolgimenti ambientali si è finora occupata soprattutto del concetto di solastalgia, ovvero il sentimento di perdita dell’identità di luogo culturale e sociale dato dalla degradazione del territorio in cui si vive. Se in questo caso la persona vive direttamente l’impatto del riscaldamento globale nel suo territorio, “l’eco-ansia si distingue dalla solastalgia in quanto ansia anticipatoria, rivolta ad eventi che devono ancora verificarsi” spiega Popescu.

“L’eco-ansia non è una patologia o una malattia mentale che deve essere curata: è una risposta sana a fronte di una minaccia reale” – Caroline Hickman

Marcella Danon sottolinea che il fenomeno è presente “in tutti quei paesi in cui sono reperibili informazioni sullo stato di salute della Terra e sui rischi a cui stiamo andando incontro”. Si rivela quindi fondamentale il ruolo dei media che fungono da intermediari delle informazioni generatrici di ansia. Nel caso dell’eco-ansia, chiarisce il professor Bonaiuto, “non si tratta di un mero processo di rapporto tra l’organismo e il suo ambiente, bensì di una triangolazione dove ai due poli di individuo e ambiente se ne aggiunge un terzo: cultura e società”. Diverse ricerche hanno indagato l’incidenza di disturbi mentali in persone che vivono in territori direttamente colpiti dagli effetti del surriscaldamento globale. Dall’uragano Katrina, alla siccità in Australia fino ad arrivare allo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia: sono molti i casi riportati dall’ultimo studio dell’American Psychological Association in cui si evidenzia l’aumento nella popolazione di stress, depressione e disturbi dell’umore.

Una delle più recenti ricerche, riportata dall’Environment Agency, ente pubblico del Regno Unito per la difesa ambientale, rivela che chi ha subito un evento estremo come una tempesta o un’alluvione ha il 50% di probabilità in più di soffrire di stress e depressione. Al contrario, l’ansia climatica si riferisce a avvenimenti che non si sono ancora verificati ed è presente soprattutto tra i paesi del Nord del mondo le cui condizioni socio-ambientali non sono ancora sconvolte dalla crisi climatica. Il malessere che può colpire questi soggetti non è legato a eventi estremi e disturbi da stress post-traumatico, ma a un cronico timore per le minacce future. “L’eco-ansia non è un fenomeno da banalizzare”, sostiene Hickman. Alimentata dalla percezione di impotenza per il carattere globale del riscaldamento climatico, “che trascende il raggio di azione dell’individuo, essa può sfociare in attacchi di panico, depressione e insonnia”. “Ad aggravare il senso di incertezza”, afferma il professor Bonaiuto, “è la difficoltà di comprendere quali siano le possibili azioni a disposizione del singolo per fronteggiare il rischio”. Se il problema non va sottovalutato, “bisogna anche evitare di patologizzarlo”, continua Hickman. “Non si tratta di una malattia mentale che deve essere curata, ma di una congrua reazione a una situazione difficile da affrontare”.

“Paradossalmente, dovremmo preoccuparci di più per coloro che non provano nessun tipo di ansia a fronte della crisi climatica”, conclude la psicoterapeuta britannica sostenendo che anche la negazione del problema “presenta degli aspetti patologici di evitamento”. Anche secondo Marcella Danon, “non si sta parlando di una malattia ma di un conseguenza della diffusa disconnessione dalla natura, sentita come qualcosa di estraneo e addirittura minaccioso. Per la psicologa, “il cambiamento climatico non è qualcosa che subiamo in modo passivo, al contrario ne siamo corresponsabili”.
“L’attivazione di gesti concreti è il migliore rimedio all’ansia e alla paura”, aggiunge Popescu, “dove non paralizza, deprime e isola, l’ansia climatica spinge ad agire in collettività ed è una forza che dobbiamo utilizzare”.
La paura del futuro può trasformarsi nel motore del cambiamento.

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