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Opinioni

Le “povere” banche italiane battono Cassa

Il legame tra Fondazioni bancarie e Cassa depositi e prestiti ha animato il dibattito economico di fine 2012. Dal 2003, le prime sono azioniste della seconda, di cui controllano il 30% (l’altro 70% è del tesoro). Oggi si discute della conversione delle azioni, ma a prevalere è l’interesse del privato. Il commento di Antonio Tricarico per Greenreport.it

Il governo, i giudici, le banche, i giornalisti. Sono stati in tanti a “dare i numeri” sulla vicenda della conversione della partecipazione azionaria di 66 fondazioni bancarie in quel gigante per gli investimenti pubblici chiamato Cassa depositi e prestiti (Cdp). Alla fine le “povere” fondazioni italiane che controllano ancora gran parte del sistema bancario e del credito del Bel Paese l’hanno spuntata in loro favore. Almeno per il momento.
Riassumendo le puntate precedenti, il 31 dicembre scorso scadeva la clausola obbligatoria di conversione delle azioni privilegiate delle fondazioni, già prorogata di tre anni. Dopo che queste hanno percepito ben il 3 per cento in più di profitto – pari a un miliardo di euro – per fare ben poco, il governo, proprietario del restante 70 per cento, a settembre ha azionato la clausola.
L’esecutivo Monti “aveva ereditato” questa struttura societaria da Giulio Tremonti, il quale nel 2003, per aggirare i vincoli della legge Ue e continuare a controllare gran parte di una banca semi-pubblica per gli investimenti, l’aveva trasformata in Spa, mettendo le fondazioni come socio di minoranza e continuando a tenere la cassa fuori bilancio (aggirando così il patto di stabilità). Una “genialata” che però ha messo di fatto la Cassa nelle mani della finanza privata e da allora, sempre sotto la presidenza del sempreverde liberalizzatore Franco Bassanini, ha mutato pelle e funzioni.
Guardando al capitale sociale della Cassa passato da 3,5 a 14,5 miliardi di euro in 10 anni, l’autorevole (almeno per i mercati) advisor Deloitte ha stimato che al governo erano dovuti poco meno di quattro miliardi (cinque miliardi di valore del 30 per cento, meno un miliardo pagato dalle fondazioni all’inizio per comprare le azioni privilegiate): un gruzzoletto non male per le disastrate casse dello Stato.
Le fondazioni hanno armato subito la rivolta, affermando che non avrebbero sborsato più di un miliardo per mantenere il controllo del 30 per cento delle quote. Il Consiglio di Stato è venuto subito in loro soccorso. A inizio novembre non solo ha “rispedito” la questione in Parlamento, ma ha riconosciuto alle fondazioni di aver contribuito all’aumento del patrimonio della Cassa nella misura di circa tre miliardi! Alcune stime parlano infatti di un valore potenziale di mercato della Cassa che è lievitato da 6,7 miliardi nel 2003 a 16,7 miliardi nel 2012.
Nel pieno della bolgia degli emendamenti al decreto sviluppo bis, il Senato ha scodellato una via di uscita alquanto favorevole alle Fondazioni, dilazionando i tempi. Soluzione ad hoc recepita poi addirittura dalla Cassa nel suo nuovo statuto, stilato in extremis prima di Natale. Entro fine gennaio il governo – ormai facente funzioni, ma sempre sensibile alle banche – riceverà due perizie giurate sul valore di Cdp: una sul dato del 2003, quando fu trasformata in SpA, e una su quello del 2012. Non si sa quale sia l’advisor scelto questa volta per tirare fuori cifre diverse da quelle di Deloitte e che suffragano un patto informale che sembra si sia già stretto tra Monti e le fondazioni.
Qualora dovessero essere confermate le cifre su cui si è basato il Consiglio di Stato, le Fondazioni manterrebbero un 20 per cento delle quote. In realtà guadagnerebbero tanto lo stesso anche rimanendo con le mani in mano, poiché la Cdp (molto aggressiva sui mercati) genera dividendi sempre più lauti, anche più dei due miliardi previsti nel 2012! Ciò significa che anche se le azioni privilegiate fossero stimate al 16-17 per cento del valore attuale della Cassa, le banche dovranno versare poco di più.
Si parla di 750 milioni di euro, dilazionati in 5 rate annuali, la prima ad aprile 2013. Se qualche fondazione riottosa se ne vuole uscire, perché priva di risorse e desiderosa di aiutare i territori locali – sembra la favola di Cenerentola, vero? – allora la legge approvata con la fiducia prima di Natale prevede che per il recesso si paghi solo il 50 per cento degli extra profitti ricevuti negli anni precedenti, e sempre in forma rateizzata. Se tutte le fondazioni si tirassero indietro, si tratterebbe di 240 milioni di euro!
Ricapitolando, il governo era partito in maniera aggressiva, ma invece di 4 miliardi ne incasserà meno di uno in quattro anni, con interessi bassi visto il costo del denaro sempre più ridotto.
E per chi anche con questi regali non riusciva a far quadrare i conti? Beh, un salvataggio vero e proprio non si nega a nessuno. Il Monte dei Paschi ha inaugurato la stagione con l’impegno di Monti a finanziare 3,9 miliardi di euro di titoli ad hoc da collocare da parte di una banca il cui valore era sceso sotto i due miliardi e non trovava alcun acquirente. Così il governo ha finito i regali di Natale spendendo più di tre miliardi di Euro finanziati da Imu, altre tasse e tagli alla spesa.
Già, e poi ci raccontano che i soldi non ci sono, vero? Qualche parlamentare, di fronte alla fiducia imposta su tutto il decreto sviluppo alla Camera, il 13 dicembre ha provato timidamente a chiedere che quanto meno le nuove perizie giurate arrivino in Parlamento e siano discusse lì. Entro il 15 marzo si chiudono i termini per decidere sul recesso ed entro il 1 aprile le fondazioni dovrebbero pagare la prima rata, forse di soli 150 milioni circa. Una corsa contro il tempo se si vogliono piantare nuove grane istituzionali e legali al sacco della Cdp. Ma la campagna elettorale ha cose più importanti a cui pensare che al pesce di aprile per le banche nostrane…
 

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