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Ambiente / Varie

Le dighe della discordia

I progetti di El Quimbo, in Colombia, e quelli nella Patagonia cilena, analizzati negli ultimi rapporti di Re:Common. Un modello energetico che non si sposa con le comunità locali. Con la partecipazione di ENEL

 “1.446 abitanti trasferiti, 8.000 ettari di terra inondati, 600 milioni di euro di perdite in agricoltura”; questi gli effetti che produrrà entro la fine dell’anno, El Quimbo, la mega diga di Enel costruita nel dipartimento di Huila, in Colombia. I dati sono riportati nella nuova pubblicazione "El Quimbo – La diga che i colombiani non vogliono”, realizzata da Re:Common, associazione con sede a Roma che si occupa di risorse naturali e della loro gestione attiva da parte delle comunità.

“El Quimbo non è stata pensata per ridurre il deficit energetico delle comunità locali. Al contrario, l’obiettivo è stato fin dall’inizio quello di produrre energia per l’esportazione e per il settore minerario. (…) I guadagni e i benefici rimangono interamente in mani private. In questo caso mani prevalentemente italiane”, afferma Tancredi Tarantino, autore del testo.

L’impianto idroelettrico, costruito sul Magdalena, fiume che percorre per 1.476 km il Paese da Sud a Nord, è uno degli interventi indicati dal Conpes (Consiglio Nazionale per le Politiche Economiche e Sociali della Colombia); il progetto è stato affidato nel 2008 a Emgesa, impresa controllata dalla spagnola Endesa, a sua volta sussidiaria del colosso energetico italiano Enel, di cui il ministero delle Economie e delle Finanze italiano è partecipe al 31% (nel 2013 ha avuto utli per 3,1 miliardi di euro).

I lavori di scavo sono iniziati nel 2011 e dovrebbero concludersi alla fine del 2014. I lavori infrastrutturali sono stati affidati all’italiana Impregilo-Salini, e prevedono la costruzione di una diga principale alta 151 metri e larga 645 metri e di una diga ausiliare di 66 metri d’altezza e 445 di larghezza.

Ad opporsi al progetto la comunità locale, che ha proposto in alternativa la costruzione di una diga funzionale allo sviluppo agricolo ed economico della zona, più rispettosa dell’ambiente e della popolazione, e gestita da un’azienda pubblica locale Empresa de Energìa del Huila; proposta ignorata dal governo nazionale che alle proteste, comunque pacifiche della comunità, ha risposto fin dal 2009 con la militarizzazione degli oltre 8.000 ettari dove sarebbe dovuto sorgere l’impianto idroelettrico.

Nell’opuscolo sono riportati anche i risultati del rapporto “Dobbiamo costruire altre mega dighe?” della Oxford University (paper scaricabile qui), che prende in esame l’efficacia dell’operato di 245 dighe realizzate fra il 1934 e il 2007 in 65 stati; tre quarti delle opere prese in esame risultano aver sforato le previsioni di spesa, in media del 96 per cento, facendo schizzare alle stelle il debito di molti Paesi del Sud del mondo.

Sempre di dighe e sempre di partecipazione italiana si parla in “Killing Patagonia – La grande sete dell’Enel”, un secondo opuscolo realizzato ancora da Re:Common e scritto da Enzo Cappucci, giornalista Rai, che sullo stesso tema ha girato nel 2010 il documentario “Enel, l’acqua della Patagonia tutta d’un sorso”.

“Tutto nasce da un magnifico specchio d’acqua, un immenso serbatoio d’acqua dolce vasto 972 chilometri quadrati, incorniciato dalle Ande innevate, adagiato a cavallo della frontiera tra il Cile e l’Argentina” scrive Enzo Cappucci. Ѐ il Lago General Carrera, nella regione dell’Aysén, da cui nasce il fiume Rio Baker, che insieme al Rio Pascua, è destinato a trasformarsi in un grande produttore di energia attraverso lo sbarramento di cinque dighe idroelettriche, per la produzione di 2.750 megawatt di energia.

“Il gigante energetico italiano”, riferisce Cappucci “possiede il 96% dei fiumi della Patagonia e l’80% dell’intero Cile; non possiede materialmente l’acqua cilena ma ne possiede il diritto di sfruttamento purché dopo la restituisca alla valle (…); una regola che sembra fatta apposta per creare le dighe e le centrali idroelettriche”.

Insieme alle dighe, dovrebbe essere costruita una linea di trasmissione collegata agli impianti idroelettrici, formata da 6.500 tralicci dell’altezza di 70 metri per, 2.300 chilometri, che attraverserebbe nove regioni e vari parchi nazionali.

“Una regione di straordinaria bellezza, che rischia di pagare un prezzo altissimo allo sviluppo industriale del Cile”, e in cui anche stavolta l’Italia ne risulta pesantemente coinvolta.

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