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Lasciate ogni speranza? No, portatela in classe. Insegnare nella periferia di Roma

Emiliano Sbaraglia

Emiliano Sbaraglia racconta la sua esperienza di insegnante a Tor Bella Monaca, tra sfide quotidiane e il potere della letteratura come strumento di crescita. Con “Leggere Dante a Tor Bella Monaca” dimostra che la scuola può essere un punto di riferimento anche nelle realtà più complesse. Non si considera un “professore missionario” ma un professionista che opera nel rispetto del contesto in cui insegna

Emiliano Sbaraglia insegna materie letterarie nella scuola pubblica. Scrittore, collabora alle pagine culturali di Collettiva.it, il quotidiano online della Cgil. Per dieci anni ha lavorato in una scuola media di Tor Bella Monaca, una delle periferie più complesse di Roma, spesso associata a criminalità e spaccio. È l’unica borgata della capitale, insieme a Ostia Lido, situata al di fuori del Grande raccordo anulare ad avere un liceo -lo scientifico Amaldi- e un teatro.

Il quartiere fu realizzato negli anni Trenta per accogliere la popolazione sfrattata a seguito degli sventramenti del centro storico voluti dal regime fascista. Nei piani regolatori successivi avrebbe dovuto trasformarsi in un’area di edilizia pubblica dotata di servizi e spazi verdi. Oggi il simbolo di Tor Bella Monaca sono le torri numerate dell’Ater, emblema delle sue contraddizioni e delle sfide sociali che la caratterizzano.

Oltre all’insegnamento, Sbaraglia fa parte dell’associazione Piccoli Maestri, un collettivo di scrittori che promuove la lettura nelle scuole e nelle carceri. Nel suo libro “Leggere Dante a Tor Bella Monaca” (edizioni e/o) racconta come abbia utilizzato la “Divina Commedia” per creare un legame con i suoi studenti, dando voce alle difficoltà quotidiane che loro e le loro famiglie affrontano.

Non si considera un “professore missionario” ma un professionista che opera nel rispetto del contesto in cui insegna. Per lui, la scuola non è una vocazione eroica ma un mestiere che ha senso solo se affrontato con consapevolezza e impegno. Nel libro sottolinea anche l’importanza della collaborazione tra docenti e il ruolo fondamentale della scuola pubblica come luogo di crescita e opportunità.

Tor Bella Monaca viene spesso raccontata solo attraverso le notizie di cronaca nera. Qual è invece l’aspetto più positivo che hai visto nel quartiere? E come ha influenzato il tuo modo di insegnare?
EB Secondo me l’aspetto più positivo è l’enorme quantità di giovani che ci vive, un elemento che dovrebbe essere ben considerato e sul quale si dovrebbe lavorare di più, data l’enorme potenzialità che offre. Oltre questo, è la componente umana la grande ricchezza di questo quartiere, certo non un’esclusiva di Tor Bella Monaca, ma che qui tante volte può fare la differenza, se non viene fagocitata dai tentacoli della criminalità organizzata.

Hai detto di aver ricevuto più di quanto hai dato ai tuoi studenti. C’è un episodio che ti ha particolarmente colpito o arricchito?
EB Gli episodi sono tanti, e alcuni di questi ormai si perdono nella memoria. Dovendone scegliere uno, forse è stato quando una famiglia, dopo tre anni di turbolenze disciplinari, e numerose convocazioni il cui esito non era sempre cordiale, è venuta a ringraziare per il modo in cui lo studente in questione è stato seguito, o almeno i tentativi fatti verso la costruzione di una “normalità” difficile da trovare, e che abbiamo cercato di costruire giorno dopo giorno. Mi colpisce il fatto che, dopo oltre cinque anni, con lo studente ancora ci sentiamo, e qualche volta riusciamo a vederci.

Dante è stata la chiave per fare didattica. Quali sono state le difficoltà più grandi in una realtà come Tor Bella Monaca? E come le hai superate?
EB Le difficoltà maggiori sono dipese dal convincere tutti, alunni famiglie e qualche collega, che leggere e spiegare Dante non fosse esercizio inutile, ma anzi potesse aiutare a creare una sorta di laboratorio linguistico sui generis, con qualche possibilità di miglioramento nella formazione sia individuale che collettiva. Per superarle c’è voluto un po’ di tempo, e non sempre lo sono state. Quando è accaduto è stato soprattutto grazie alla partecipazione mostrata dalla classe, risultato che abbatte ogni diffidenza.

Nel libro racconti le storie di studenti come Marvin e Saomi, che vivono situazioni difficili. Come sei riuscito a creare un ambiente sicuro e accogliente per loro? Hai adottato strategie particolari per supportarli oltre l’insegnamento tradizionale?
EB Non sono riuscito a creare un ambiente sicuro e accogliente per loro: tutto è sempre rimasto sul filo del rasoio, e a volte penso che si sarebbe potuto far di più. Però abbiamo provato, in particolare insieme ai colleghi e le colleghe di sostegno, a offrire un minimo di tranquillità, e la possibilità di avere qualche figura adulta che potesse essere un minimo di riferimento per loro. Le strategie non sono particolari, ma vanno oltre l’insegnamento cosiddetto tradizionale: ascoltare molto, parlare tanto, cercare di incontrarsi anche il pomeriggio, meglio se sempre a scuola. Poco altro, perché nella realtà concreta di certe situazioni complesse, alla fine noi insegnanti poco altro possiamo fare. Ma farsi sentire vicini, senza giudicare, è già importante.

Sottolinei spesso l’importanza del lavoro di squadra tra insegnanti. Come sei riuscito a costruire un buon rapporto con i tuoi colleghi e che impatto ha avuto questo sui ragazzi?
EB Mah, in realtà non è che sia riuscito sempre a costruire un buon rapporto, anche a causa di un mio carattere non certo facile, e di alcuni atteggiamenti che a volte vanno oltre il ruolo che si ricopre, e che giustamente non tutti sono disposti a seguire. Di certo il lavoro di squadra è fondamentale, e in scuole come queste uno spirito solidale comunque viene a formarsi tra docenti, quasi fosse un’esigenza per sopravvivere a determinate situazioni. Devo dire che negli anni, con l’esperienza acquisita, questo aspetto sono riuscito a migliorarlo, diventando più collaborativo con “la vecchia guardia”, e ancor più accogliente con i nuovi colleghi. Anche perché da soli non si va da nessuna parte. I ragazzi, ogni qualvolta si è riusciti a creare uno spirito di squadra positivo, un vero corpo docente, inutile dire che ne hanno tratto vantaggio, come d’altronde accade in ogni altra scuola.

Nel libro scrivi: “Dante ci salverà? La scrittura ci salverà? E la letteratura, la poesia? Chi può dirlo. Quello che purtroppo è quasi certo è che non potranno salvare Marvin”. Secondo te, qual è il ruolo reale della scuola nel contrastare l’abbandono scolastico? E quali sono i limiti di questo intervento?
EB Quello dell’abbandono scolastico è un tema molto delicato, e in luoghi come quello descritto nel libro la questione non riguarda soltanto la scuola, il cui ruolo deve essere quello di provare a costruire una sorta di rifugio autorizzato e riconosciuto per determinati studenti, lavorando sulle proprie forze. Di sicuro, senza la collaborazione delle istituzioni, in termini di presenza e di strutture adeguate, la scuola in sé può fare ben poco.

Hai portato i tuoi studenti a Firenze. Che impatto ha avuto questa esperienza su di loro? Hanno cambiato il loro modo di vedere la scuola e il mondo?
EB In realtà il viaggio a Firenze descritto nel libro raccoglie anch’esso una serie di uscite didattiche fuse insieme nel tempo, compresa una piuttosto avventurosa di tre giorni al Salone del Libro di Torino, in modalità simili a quelle descritte. E comunque sono state tutte esperienze che ogni volta hanno avuto un effetto a dir poco benefico su di loro; alcuni degli studenti che ho avuto, a dodici-tredici anni non erano ancora mai usciti dal loro quartiere, a parte qualche puntata estiva verso Ostia.

Critichi la figura dell’insegnante “missionario” e difendi quella del “professionista”. In concreto, che cosa significa essere un insegnante professionista in una periferia difficile?
EB Significa prima di tutto cercare di capire dove ti trovi in modo da prepararti ad ascoltare, a osservare, a costruire un confronto proficuo, con l’obiettivo di comprendere quali possano essere gli strumenti migliori da utilizzare, non solo didatticamente ma passionalmente, mi viene da aggiungere, per dare una mano concreta alle tue classi, e alla tua scuola.

Dici che “se non si parla tra diversi, non si risolverà mai nulla”. Come hai promosso il dialogo e l’inclusione tra studenti con background molto diversi?
EB A dir la verità, in questo senso nella maggior parte dei casi ho molto più imparato io da loro che loro da me: la diversità la vivono tutti i giorni sulla strada, e devono farci i conti. Nel bene e nel male.

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