Interni / Reportage
L’archivio che custodisce le memorie delle lotte operaie all’ex Snia di Roma
Nei fascicoli abbandonati nello stabilimento, nomi, volti e lotte delle donne che filavano la “seta artificiale”. Ora si trovano al Centro di documentazione territoriale intitolato all’operaia e partigiana Maria Baccante
La foto risale probabilmente agli inizi degli anni Quaranta. Ritrae un gruppo di donne in un’improvvisata sala d’attesa. L’aria seria, poche accennano un sorriso. Alcune in camice bianco, altre nero. Sono operaie dell’allora Cisa Viscosa, poi divenuta Snia. Siamo a Roma, via Prenestina 175, non lontano da Porta Maggiore. La Cisa produceva la cosiddetta “seta artificiale” a partire da fogli di cellulosa. Lo stabilimento arrivò a impiegare oltre 2.300 operai all’inizio degli anni Trenta. Entrò in crisi dopo la Seconda guerra mondiale e chiuse nel 1955. “Forse erano in attesa di una comunicazione aziendale o di prendere lo stipendio”, spiega Roberto Rapiti. Sua madre, Adriana Di Lazzaro, è in seconda fila, la prima sulla sinistra, di profilo. C’è anche la futura zia, Luigina Pasetto, sulla destra, la bocca coperta dalla compagna che le sta davanti. È l’unica foto conosciuta di operaie della ex Snia di Roma.
Rapiti ha donato la foto all’Archivio storico Viscosa che custodisce i documenti ritrovati e messi in salvo negli anni Novanta dagli attivisti del centro sociale insediatosi in alcuni locali del complesso industriale abbandonato. L’Archivio è gestito dal Centro di documentazione territoriale “Maria Baccante”, impegnato in una serie di iniziative per celebrare il centenario della fabbrica, inaugurata nel 1923. Un lungo anno ricco di eventi che si concluderà con un convegno il prossimo 28 settembre.
Rapiti è venuto in possesso della foto molti anni dopo la scomparsa della madre. Tra le circa 12mila cartelle relative alle maestranze c’è anche quella della signora Di Lazzaro, assunta a 17 anni nel 1938 e licenziata nel 1943. Operaia in torcitura, ovvero la “torsione” dei diversi filamenti per formare un filato più resistente. “Mia madre mi parlava di una disciplina ferrea -ricorda-. E in occasione dei discorsi del duce la portavano a Piazza Venezia. Ma lei, se poteva, ne approfittava per farsi un giro in centro con le colleghe”.
Le cartelle raccolgono schede anagrafiche, documenti del collocamento, dichiarazioni di appartenenza alla razza ariana, lo status di reduce di guerra, richieste di ferie o prestiti. Ma anche le punizioni. Sospensioni di una o più ore di lavoro, con conseguente trattenimento della paga corrispondente, per le motivazioni più disparate. Leggerle può aiutare forse a comprendere il clima in cui si lavorava. Il 15 novembre 1938, ad esempio, Di Lazzaro viene multata di una lira e venti perché “sorpresa a mangiare in tempo di lavoro”. Il primo settembre del 1943 le lire di multa sono due perché “all’entrata in servizio era sprovvista di tessera di riconoscimento”.
Oltre ai fascicoli sugli operai, nell’Archivio storico Viscosa si trovano i materiali dell’ufficio tecnico -planimetrie e disegni industriali- e referti medici. A gestire questa preziosa memoria sono una decina di volontari. “Soprattutto nei primi anni qui lavoravano molti immigrati -spiega la storica Maria Lepre, una delle volontarie-. La maggior parte donne e ragazze minorenni e questo abbassava di molto il costo del lavoro. Venivano anche dal Nord dove c’era una tradizione di lavoratrici che filavano la seta”.
Vincenza Riscino non aveva 15 anni quando fu assunta nel 1939. Originaria di Cerignola (FG), venne destinata al reparto di aspatura, dove i filati venivano raccolti in matasse. Prima di quattro figli, era l’unica che lavorava. “Dalla mattina alla sera in fabbrica e poi a casa a piedi per risparmiare i soldi del tram -dice il figlio Fabio Betulli-. Fu un periodo difficile per la mia famiglia, considerata antifascista poiché mio nonno era amico di Giuseppe Di Vittorio”.
“Mia madre mi parlava di una disciplina ferrea. E in occasione dei discorsi del duce la portavano a Piazza Venezia. Ne approfittava per farsi un giro” – Roberto Rapiti
Il Centro come detto è intitolato alla memoria di Maria Baccante, operaia Cisa ma anche figura di primo piano della Resistenza romana, misconosciuta fino a pochi anni fa. Partecipò alla lotta clandestina tra le file del movimento Bandiera Rossa. Assunta nel 1946 e licenziata nel 1949, probabilmente come ritorsione per il suo protagonismo durante la vertenza che in quell’anno sfociò in un’occupazione. Un evento eclatante per l’epoca: 32 giorni nei quali operai e operaie portarono avanti tutta la produzione. Nell’anno dell’occupazione Elvira Mariani lavorava al nido. Dopo una prima esperienza nel reparto tessitura, a guerra terminata venne riassunta per lavorare alle dipendenze delle suore di Santa Maria Ausiliatrice che gestivano l’asilo nido e i dormitori interni. La figlia, Anna Morganti, è stata una “bimba della Snia”. “Mia madre entrò in fabbrica a 17 anni -racconta-. Un ambiente di lavoro molto duro: costrette a mangiare di nascosto, era difficile anche andare in bagno”. Per non parlare dei ricatti sessuali dei capireparto: “Alcune sue amiche si erano confidate: se avevi fame o avevi bisogno di qualcosa potevi ottenerlo. Basta che ci stavi”.
Un altro importante momento di conflitto operaio risale addirittura al dicembre 1924, un anno dopo l’apertura. Le schede di quell’anno riportano infatti molti licenziamenti “per il movimento del 9/12”. “Ci furono diverse concause: l’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari; il sindacato unico fascista -spiega Lepre-. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu l’imposizione del salario a cottimo”. Secondo la studiosa, non si trattò di una protesta spontanea, come riportato dai giornali dell’epoca e dai verbali della pubblica sicurezza: “fu uno sciopero organizzato dalla cellula comunista presente nello stabilimento. Un’ipotesi che nasce seguendo le tracce degli operai licenziati e andando a recuperare informazioni nell’archivio centrale di Stato e nell’archivio del casellario giudiziario. Alcuni di loro vennero tacciati di essere dei sovversivi”.
Cessata la produzione, lo stabilimento venne usato come deposito merci e poi abbandonato. Nel 1990 la società “Ponente 1978” acquistò tutta l’area con lo scopo di realizzare un centro commerciale. Il progetto venne contestato dagli abitanti del quartiere e definitivamente bloccato nel 1992 dall’acqua emersa dalla falda. Oggi su gran parte dell’area ex Snia sorge il Parco delle energie: giochi per i bambini, uno spazio eventi e tanto verde. E poi l’unico lago naturale di Roma, inaspettato scrigno di biodiversità tra il traffico di via Prenestina e via di Portonaccio.
Nell’area dell’ex Snia sorge l’unico lago naturale di Roma. Uno scrigno di biodiversità minacciato dall’accordo tra Comune e Sapienza per realizzare servizi universitari
“Le realtà che da trent’anni si battono per la ripubblicizzazione chiedono di espropriare gli ultimi quattro ettari e mezzo e realizzare un parco naturalistico e di archeologia industriale”, dice Marco Corirossi del Forum Parco delle energie. Sull’area adiacente al lago, infatti, incombe la minaccia di 280mila metri cubi di cemento. Accantonato il progetto di un polo per la logistica si valuta l’ipotesi di realizzare servizi universitari (studentato più aule) in virtù di un protocollo d’intesa tra Comune di Roma e Sapienza. “Il cantiere e la gestione dell’infrastruttura avrebbero un impatto enorme sull’ecosistema del lago -commenta Corirossi-. Nella migliore delle ipotesi diventerebbe un laghetto come quelli di Villa Borghese, perdendo il suo eccezionale valore naturalistico”.
La richiesta quindi non cambia: esproprio e cambio di destinazione d’uso con almeno due ettari e mezzo da destinare a riforestazione. A cent’anni dalla sua apertura, il destino del quartiere è così ancora intrecciato a quello della fabbrica. L’Archivio storico Viscosa, intanto, porta avanti il suo dialogo con il territorio. La foto dalla quale è partito questo racconto è stata diffusa sui social, stampata e affissa in bar e parrocchie alla ricerca di informazioni. Un esercizio di community history per riscrivere collettivamente un pezzo di storia di quel quadrante della Capitale. Per dare un nome e la giusta dignità alle donne immortalate: esistenze segnate, nel bene e nel male, da una delle più importanti realtà di quella che fu la Roma industriale.
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