L’acqua che non fa notizia – Ae 80
“Quando un giornalista osa interrogarsi sul settore delle acque minerali il suo giornale rischia di perdere le inserzioni pubblicitarie”. Così si preferisce non parlarne. Le pressioni esercitate su media e istituzioni arrivano fino al ministero della Sanità. “Come quella volta…
“Quando un giornalista osa interrogarsi sul settore delle acque minerali il suo giornale rischia di perdere le inserzioni pubblicitarie”. Così si preferisce non parlarne. Le pressioni esercitate su media e istituzioni arrivano fino al ministero della Sanità. “Come quella volta che mandai un fax al ministro e mi richiamò lo stesso giorno Mineracqua…”
Giuseppe Altamore è autore di due libri recenti: in Acqua S.p.A. (Mondadori) analizza il mercato, dagli acquedotti alle acque minerali, mentre I padroni delle notizie. Come la pubblicità occulta uccide l’informazione (Bruno Mondatori) spiega i legami tra le redazioni dei giornali e il mondo della pubblicità. Cinquant’anni, siciliano d’origine, Altamore (nella pagina accanto) è -sul suo sito internet- l’Idroinquisitore: l’acqua è da anni al centro della sua attività giornalistica (oggi è vice caporedattore di Famiglia Cristiana).
Perché, dopo esserti occupato di acqua, ti sei dedicato ai meccanismi del mercato pubblicitario?
Giornali e tv non parlano di acqua minerale e questo è dovuto al controllo esercitato dagli inserzionisti pubblicitari sulle redazioni. Secondo i dati forniti da Nielsen, l’agenzia di studi sui mercati, le aziende che imbottigliano l’acqua investono in pubblicità almeno 360 milioni di euro all’anno (nel 2002).
In Italia si consumano circa 188 litri pro-capite di minerale, tre volte quanta ne bevevamo venti anni fa. Nell’immaginario comune l’acqua del rubinetto è triste, e sembra che tutte le virtù siano nelle acque minerali… I pubblicitari sono stati bravissimi, così pochi si ricordano che in Italia abbiamo un’ottima acqua d’acquedotto, e che solo il 30% dell’acqua ha bisogno di essere “lavorato” prima dell’immissione nella rete idrica. Quando un giornalista analizza criticamente il settore delle acque minerali la sua redazione rischia di perdere le inserzioni pubblicitarie. Nel 2000 Oliviero Beha, nella trasmissione di Radio 1 Rai Radio a colori, intervistò un perito chimico che invitò a prestare attenzione al consumo di acque minerali; subito Mineracqua (l’associazione che riunisce gli imbottigliatori, vedi box sotto) inviò una lettera al concessionario delle pubblicità Rai, minacciando di tagliare gli investimenti. Ho voluto vedere cosa succede anche in altri settori. Nel gennaio 2005 Bmw ha organizzato un soggiorno a Valencia per 90 giornalisti; se questo è il sistema non ci si può poi stupire che sia così raro leggere la stroncatura di una nuova auto. Negli ultimi dieci anni almeno 60 provvedimenti dell’Antritrust hanno riguardato la pubblicità ingannevole. Parlano chiaro: è provato il collegamento tra gli uffici marketing delle aziende e le redazioni.
Tornando alle acque minerali, in tv ci sono trasmissioni di pseudo-tutela del consumatore in cui non si parla mai in modo critico del settore. Nel libro racconto il caso di Occhio alla spesa, condotta su Rai1 da Alessandro Di Pietro: spesso fa confronti tra le acque minerali e quelle di rubinetto. Vincono sempre le prime. Ma Di Pietro è anche testimonial di Sangemini. Invece Pietro Marrazzo, conduttore di Mi Manda Rai3 prima di diventare presidente della Regione Lazio, non ha mai affrontato il tema dell’acqua in bottiglia nel suo programma. Forse perché moderava convegni di Mineracqua?.
Tra le notizie che non fanno notizia c’è che le aziende pagano pochissimo l’acqua che imbottigliano. Perché?
In Italia è consolidata la pratica di offrire le concessioni per il prelievo dell’acqua dal sottosuolo in modo semigratuito. Quasi ovunque le aziende pagano un tot per lo spazio che occupano e non per l’acqua che imbottigliano (vedi tabella a pag. 19).
Ciò che colpisce di più, però, è la scarsa trasparenza degli enti locali: nel 2004 la Corte dei conti del Piemonte ha chiesto alle Province i dati relativi alla concessioni attive e ai ricavi per le pubbliche amministrazioni. Li ha forniti solo quella di Biella, ammettendo di ricavare poco più di 8.000 euro l’anno e di spenderne 17.642 per le attività di vigilanza su tre concessioni e due permessi di ricerca.
Se le concessioni sono a buon mercato, ciò è dovuto al controllo esercitato sulle istituzioni, perfino sul ministero della Salute. Nel 2003 ho inviato un fax all’ufficio stampa del ministero chiedendo le analisi delle 10 marche di minerale più vendute e un’intervista con il ministro Sirchia. Lo stesso giorno mi ha chiamato Mineraqua, chiedendomi informazioni sull’inchiesta che stavo realizzando e ammettendo di esser stati informati dal ministero. Hanno anche inviato una lettera al mio direttore, per diffidarmi dal continuare.
In Acqua S.p.A. racconti due casi in cui gli imbottigliatori hanno fatto causa agli acquedotti. È possibile che promovendo il consumo dell’acqua dei rubinetti si faccia concorrenza alle minerali?
Che acqua minerale e acqua di rubinetto sono concorrenti lo ha stabilito l’Antitrust, su pressione di Mineracqua. È l’aspetto più interessante di una sentenza con cui, nel 2005, l’Autorità ha condannato Acea, l’azienda che gestisce l’acquedotto di Roma, per aver pubblicizzato la sua acqua come “pura” e “di montagna” quando le sorgenti sono a soli 409 metri, che non è montagna. Un altro giudizio, nel 1999, ha riguardato la Consiag di Prato (oggi confluita in Publiacqua): sui manifesti pubblicitari aveva definito la propria acqua “minerale naturale”, ma per legge l’acqua distribuita dagli acquedotti deve subire dei trattamenti e non può essere considerata naturale. Conviene però fare un passo indietro: il problema principale è che -ad oggi- i gestori degli acquedotti non hanno alcun interesse a pubblicizzare la propria acqua “da bere”. Non è fonte di profitto: dei 240 litri consumati in media al giorno da ogni italiano, solo un paio sono bevuti o utilizzati per cucinare.
Ribaltando queste sentenze, la concorrenza sleale non è quella degli imbottigliatori, che investono milioni in pubblicità, nei confronti dell’acqua distribuita dagli acquedotti?
Quando le aziende usano spudoratamente aggettivi falsi, secondo me sì. C’è ad esempio una “Guida per il consumatore” distribuita da Mineracqua quando si avvicina la stagione estiva. È in pratica un depliant pubblicitario che, parlando del corretto consumo delle acque minerali, prescrive: “evita assolutamente l’impiego di ghiaccio, che da un lato ne altera il gusto e, dall’altro, ne contamina la purezza originaria”…In questo caso ci sono gli estremi per una denuncia per pubblicità ingannevole: non puoi criminalizzare l’altra acqua per motivi commerciali. Le aziende fanno anche cose pacchiane (come si può pubblicizzare l’acqua a zero calorie?) e giocano su cose ambigue: un’acqua sottoposta ad analisi vantava tra le sue proprietà quelle anti-ossidanti del selenio. Che è presente in tracce. Ma una ricerca condotta dal prof. Carruba, direttore dell’istituto di farmacologia dell’università di Milano per il Giurì di autodisciplina pubblicitaria ha dimostrato che per riceverne i vantaggi occorre berne almeno 60.000 litri. Tutti in una volta sola.
Industrie in lobby
Quando si “pestano i piedi” alle aziende delle acque minerali, entra in gioco Mineracqua.
La federazione delle industrie italiane che confezionano acque minerali naturali, acque di sorgente e bevande analcoliche, nata nel 1990, riunisce, rappresenta e tutela gli interessi di un centinaio di associati, che controllano l’80% del mercato delle acque minerali e di sorgente.
Il presidente, l’avvocato Ettore Fortuna, ricopre anche l’incarico di vicepresidente del Consorzio nazionale imballaggi (Conai) ed è consigliere d’amministrazione di Corepla (Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclaggio e il recupero di imballaggi in plastica).
I padroni delle notizie
“Un inquinamento silenzioso contamina il rapporto di fiducia che si instaura tra il giornalista, la testata -televisiva, radiofonica o cartacea- e il pubblico. […] Ormai la logica della comunicazione commerciale sovrasta il giornalismo, anche quando non ci sono elementi chiari di commistione tra pubblicità e giornalismo. Una distorsione in larga parte sottovalutata”. Il libro di Giuseppe Altamore spiega che “i padroni delle notizie” sono, ormai, le concessionarie di pubblicità. Un settore ultra concentrato e dominato dalle aziende che vendono gli spot in tv: il gruppo Fininvest -Publitalia e Mondadori- controlla il 40,8% del mercato; Sipra -concessionaria Rai- il 16,9%. Al terzo, quarto e quinto posto Rcs (Corriere, Gazzetta dello Sport e City), Manzoni (gruppo Espresso; 38 quotidiani tra cui Repubblica) e Publikompass (Fiat). Nel 2005 le “acque minerali” hanno investito in pubblicità 379 milioni di euro (al lordo degli sconti praticati dalla concessionarie, dati AC Nielsen).