L’abito giusto del riutilizzo – Ae 60
Numero 60, aprile 2005A Scandicci, quello che nel 1976 era il “mercatino” di Mani Tese è diventato un “centro polivalente” che raccoglie 350 tonnellate di rifiuti e indumenti, da rivendere, riciclare o riutilizzare Tra Firenze e Scandicci, il Mercatino di…
Numero 60, aprile 2005
A Scandicci, quello che nel 1976 era il “mercatino” di Mani Tese è diventato un “centro polivalente” che raccoglie 350 tonnellate di rifiuti e indumenti, da rivendere, riciclare o riutilizzare
Tra Firenze e Scandicci, il Mercatino di Mani Tese è un luogo famoso. Da anni fa parte della storia sociale della città. Molte famiglie della provincia fiorentina si liberano di vecchi abiti e mobili ingombranti chiamando i furgoncini di Mani Tese o portando sacchi di vestiti in questo capannone nella piana di Pieve a Settimo, periferia di Scandicci (seconda città della provincia fiorentina: 56 mila abitanti). Da quasi trent’anni, i volontari dell’associazione raccolgono “rifiuti” che possono essere riutilizzati e riciclati: questo è uno dei canali classici di finanziamento di Mani Tese, accanto alle donazioni e ai fondi pubblici.
“Era il 1976 -ricorda Bianca Zoni, ancor oggi dietro i banconi del Mercatino di Scandicci- e volevamo fare qualcosa per i più poveri del mondo”. Ci volevano soldi e, copiando un modello caro all’associazione francese Emmaus dell’Abbè Pierre, cominciò allora la raccolta volontaria di stracci e carta. Si raccoglievano materiali che potevano essere rivenduti ai cartai di Firenze o agli stracciaroli di Prato. Il denaro ricavato veniva utilizzato da Mani Tese per finanziare i progetti nel Sud del mondo.
“Allora non pensavamo alla soluzione di problemi ambientali. Raccogliere rifiuti era uno strumento -spiega Giampietro Degli Innocenti, presidente della cooperativa che gestisce il Mercatino di Scandicci-. È vero, semmai, che cercavamo di riflettere su un’idea di lavoro. Desideravamo un lavoro alternativo che ci permettesse di vivere secondo i nostri principi”.
Sono passati anni luce da quei tempi. Dalla stanza-deposito nel centro di Firenze dove, alla fine degli anni 70, venivano accumulati gli stracci e gli armadi il Mercatino si è trasferito, fin dal 1984, in due vecchie baracche (di proprietà della Curia di Firenze) nella periferia di Pieve a Settimo. Il Mercatino è, ancor oggi, conosciuto con questo nome storico. Anche se è un moderno capannone dove sventolano bandiere della pace e si passeggia fra cartelli che citano frasi di Gandhi. Una cosa è certa: non stiamo più parlando di un piccolo impegno volontario nato nei cortili di una parrocchia, né di due baracche-deposito, ma, avverte un cartello, di una “struttura polivalente per il riutilizzo e il riuso dei beni usati”. Un progetto che è stato premiato come il migliore, in Toscana, per la riduzione dei rifiuti attraverso il riuso.
È stato un cammino testardo arrivare fino a qui. “Ma è stato un percorso obbligato -dice Ugo Biggeri, presidente della Fondazione di Banca Etica e protagonista di questa avventura fiorentina-. Per anni siamo andati avanti con la buona volontà, strappando autorizzazioni provvisorie per la nostra attività. Non poteva continuare a questa maniera”. Anche perché erano già cambiate le sensibilità collettive: la gestione dei rifiuti, fra la fine degli anni 80 e i primi anni 90, era una delle frontiere di difficili sfide ambientali. La solidarietà e il volontariato di Mani Tese doveva pur confrontarsi con le grandi questioni ecologiche, non poteva (e non voleva) ignorare che, attorno ai rifiuti, ruotavano anche gli stili di vita di una società. E, nel frattempo, cambiavano anche le leggi italiane: i provvedimenti varati, nel 1997, dal ministro per l’Ambiente Edo Ronchi imponevano alle amministrazione comunali una raccolta differenziata del 35% sul totale dei rifiuti se volevano avere accesso a sconti importanti su quanto continuavano a spedire in discarica. “Ma il decreto Ronchi fa confusione sulle idee di riuso e di riciclaggio -avverte Ugo Biggeri-. Se un cittadino conferisce un vecchio divano a un centro di raccolta comunale questo mobile viene considerato un rifiuto. Se lo stesso divano, invece, viene consegnato a un’associazione privata, è chiara l’intenzione di voler consentire il riutilizzo del mobile. Quindi il divano non è considerato rifiuto e non va ad aumentarne la quantità prodotta da una comunità”.
Normative complicate (studiate giorno e notte dal gruppo di Mani Tese di Firenze), concessioni a operare e varianti al piano regolatore da ottenere (trattative con il Comune di Scandicci), finanziamenti da trovare (intesa con la Regione Toscana e accordo con Banca Etica) per trasformare, in un lavoro durato più di dieci anni, il vecchio Mercatino dell’usato in una struttura complessa e ambiziosa.
Ogni anno, secondo una ricerca compiuta dal dipartimento di Ingegneria civile dell’università di Firenze, il centro di Mani Tese raccoglie poco più di 350 tonnellate di materiali. Rappresentano il 10% dei rifiuti annui di Scandicci. Sono mobili, vestiti, scarpe, oggetti vari, libri. Il 64% di questi materiali viene riutilizzato; il 44%, invece, è avviato al riciclo. Solo il 2% si trasforma in vero rifiuto.
Il centro di Mani Tese è gestito da una cooperativa di otto persone. I suoi costi sono di 204 mila euro l’anno. La spesa per il materiale destinato al riuso o al riciclo è bassa: 29 euro a tonnellata per quanto viene portato direttamente al capannone di Pieve a Settimo. Le aziende municipalizzate dell’area fiorentina spendono molto di più: da 56 a 158 euro per la stessa tonnellata. Minore la differenza se Mani Tese va a raccogliere nelle case i materiali: l’associazione spende poco più di 100 euro a tonnellata. Alle municipalizzate questi viaggi costano fra i 107 e i 129 euro. “Noi speriamo di avere dal riuso dei materiali un guadagno di 100 mila euro all’anno per finanziare progetti di solidarietà nel Sud del mondo”, si augura Ugo Biggeri.
“L’esperienza fiorentina di Mani Tese è significativa per la riduzione dei rifiuti -spiega Silvia Spadi, un’ingegnere ambientale che ha studiato il caso di Pieve a Settimo-. Il Mercatino intercetta materiali che, altrimenti, sarebbero abbandonati accanto ai cassonetti. Ma è importante anche perché fa capire ai cittadini che oggetti che loro considerano un rifiuto, in realtà possono essere riutilizzati”.
In un anno sono circa 10 mila le persone che, due volte a settimana, vengono al Mercatino di Mani Tese a Pieve a Settimo. “Molte persone sono una presenza abituale. Passano di qui per curiosare o comprare”, dice Bianca Zoni. Basta venire il sabato mattina, alle nove, per aver conferme: sono decine e decine le persone in coda di fronte alle porte dei magazzini. Il primo assalto è quasi irrefrenabile: commercianti e collezionisti vogliono accaparrarsi gli “oggetti” migliori.
Fra i “clienti” del Mercatino ci sono immigrati e persone in stato di bisogno. Viene anche gente solo per curiosità, per passare il tempo, per abitudine. Da qui la parte la nuova ambizione di Mani Tese: coinvolgere una parte di queste persone (il terzo gruppo) in un nuovo sogno. Nel nuovo capannone di Pieve a Settimo dovrà nascere un emporio del commercio equo e del consumo critico. Il cerchio disegnato trent’anni fa con il solo obiettivo di raccogliere fondi si è allargato. È diventato una importante realtà ambientale e sociale. Non è più solo un canale di finanziamento. Adesso cerca di essere anche un pezzo di una società diversa. !!pagebreak!!
Nel centro anche il commercio equo
Il centro di Pieve a Settimo costa un milione e 300mila euro. Metà arrivano dalla Regione Toscana su fondi europei per il progetto di riuso dei rifiuti. L’altra metà sono impegno di Mani Tese con mutuo di Banca Etica. Oltre al Mercatino (10 mila visitatori l’anno), nell’edificio (costruito con tecniche di bioedilizia: caldaia a biomassa, impianto fotovoltaico da 3 kW, muro solare per riscaldamento passivo, impianti solari e tetto inerbito) saranno ospitati empori del commercio equo, del consumo critico e del risparmio energetico.
Vi sarà una sala incontri da un centinaio di posti e un centro di documentazione sulle tecnologie appropriate di duemila volumi.
Alle Sieci, dove anche il nome vuol dire sostenibilità
La Grande Casa dove nascono le buone pratiche
La Grande Casa è alle Sieci, belle campagne della valle dell’Arno. Poco più di dieci chilometri da Firenze. La gente del paese non lo sa, ma Sieci potrebbe stare anche per Sostenibilità Impegno e Cooperazione Internazionale. Gioco di parole per spiegare che la Grande Casa non è solo una “famiglia allargata”, ma un progetto comunitario di tre famiglie e dei loro ospiti stabili o saltuari (quasi mai meno di una ventina di persone a cena) attorno a possibili “nuovi stili di vita”. Un’esperienza singolare e “normale”, una storia di vita assieme e di “buone pratiche” portate avanti con lucida semplicità: la Grande Casa nasce dalla voglia di queste tre famiglie (con una piccola e felice banda di figli: nove e altri due in arrivo) di vivere giorni di “sobrietà felice”.
Olivia è la più giovane di questo gruppo di persone (28 anni; il più anziano è Giampietro, 46 anni) e le sue ragioni sono le più immediate e naturali: “Viviamo assieme perché ci piace. E ci lasciamo invadere con tranquillità, ci lasciamo attraversare dalle storie di chi passa di qui”. La Grande Casa è un luogo aperto. Potreste trovarci un incontro di sindaci del Benin o un piccolo campo di scout, potreste partecipare a un seminario sul Wto o a un corso sulle energie alternative.
Le regole di convivenza ci sono (turni di spesa, di pulizia, di cucina), ma nessuno si arrabbia per gli strappi a discipline mai scritte. La Grande Casa ha le radici in una storia comune dentro Mani Tese. All’interno del gruppo fiorentino di questa associazione nacque il desiderio di alcuni di non smarrire una radicalità giovanile. “Non volevamo che il lavoro o una vita normale ci allontanassero dai nostri sogni”, ricorda Ugo Biggeri, 38 anni, anche lui abitante della Grande Casa. La Grande Casa, allora in abbandono, fu offerta, molti anni fa, dall’associazione Madonnina del Grappa. Fu restaurata con tecniche elementari di bioedilizia: caldaie a legno e pannelli fotovoltaici. Si cominciò a lavorare, con metodi di agricoltura biologica, otto ettari di terra a olivi e bosco.
E poi vi era la voglia di non chiudersi all’interno della propria comunità: ecco, di conseguenza, l’accoglienza, l’arrivo di ragazzi del Servizio civile europeo, il passaggio di numerosi ospiti. E nel bosco si snoda, come se fosse un sentiero nel parco di Pinocchio, un percorso didattico sulla sostenibilità ambientale: qui vengono scuole da tutta la provincia. Il giovedì e il sabato sono dedicati al lavoro comune. Ma non vi sono obblighi avvertiti come imposizioni: la regola madre è la tolleranza, il desiderio di andare oltre la semplice convivenza. Una scelta di fondo sembra unire le famiglie della Grande Casa: solo Mirjam, la moglie di Ugo, ha un lavoro stabile (medico in ospedale), gli altri hanno scelto una “insicurezza che rende liberi”. Un “precariato” voluto che, spiegano alle Sieci, “rompe la gabbia della trappola posto fisso-mutuo-assicurazione, che spesso impedisce a chi ne sente lo stimolo di avere uno stile di vita che cerca di essere coerente con i propri ideali”. Acquista un senso qui l’idea, spessa indefinibile, di una storia di relazioni capace di puntellare e superare ogni fragilità o paura economica.
I successi della Grande Casa sono sorprendenti: nella cucina delle Sieci è nato l’ambizioso progetto di Terra Futura, la fiera fiorentina delle “Buone Pratiche”. Qui è stato costruito, con notti insonni, il progetto del cantiere di riuso dei rifiuti di Scandicci. Le Sieci non sono “l’altro mondo possibile”, ma è incoraggiante la serenità con cui si riesce a vivere (soprattutto i ragazzini: ribelli e consapevoli allo stesso tempo) in mezzo ai guai (sulla Grande Casa pesa la minaccia di una lottizzazione pesante e uno sfratto), senza sprechi, con una vita allegra capace di violare quasi tutte le leggi del consumismo. È una bella storia: alla sera, non appena la buona stagione la consente, si passano ore nell’aia delle Sieci. A discutere di economia o di agricoltura biologica. A parlare di sogni. Ha ragione Olivia: si vive (e si viene) alle Sieci perché qui si sta bene.