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Esteri

La tassa e la dittatura

Dal ‘95 la diaspora eritrea versa il 2% del reddito al governo. Chi non lo fa, perde ogni diritto. In molti sono stanchi di finanziare il regime —

Tratto da Altreconomia 150 — Giugno 2013

Gli emigranti eritrei la chiamano “il 2%”. La definizione corretta è però “diaspora tax”, ed è il controverso tributo che il governo di Asmara impone agli emigrati sui redditi prodotti all’estero. Introdotta nel 1995, l’imposta affonda però le radici nella trentennale lotta per l’indipendenza contro l’Etiopia. Per sostenere i guerriglieri impegnati contro i militari di Addis Abeba, i movimenti indipendentisti chiedono un sostegno agli emigrati. La posta in palio è un’Eritrea libera e indipendente, e gli espatriati rispondono con entusiasmo. Ai ribelli arrivano così flussi importanti dall’estero. Nel 1993, raggiunta l’indipendenza, l’Eritrea è un Paese distrutto che va ricostruito dalle fondamenta. Asmara fa un nuovo appello agli emigranti affinché donino il 2% dei loro redditi, e ancora una volta la risposta è generosa.Nel ‘99 però scoppia una nuova guerra contro l’Etiopia. Di fronte all’emergenza, Asmara chiede alla diaspora anche una una tantum di un milione di lire, e un versamento mensile di 50mila lire. Il peso diventa elevato, e sorgono i primi dubbi sull’opportunità di pagare: il sistema politico si sta infatti trasformando in una dittatura e c’è il sospetto che quei fondi servano al rafforzamento del regime. Anche perché Asmara non rendiconta l’utilizzo dei fondi. Gruppi di eritrei iniziano a chiedere di ridurre i contributi. Il regime non cede. Quando viene sollevato il problema della legittimità del tributo, i diplomatici rispondono che si tratta di un’imposta legale e che altre nazioni prevedono imposizioni sui cittadini all’estero. Il riferimento è a Stati Uniti e Israele che impongono tributi sui redditi e, nel caso Usa, anche sui guadagni patrimoniali realizzati all’estero. Il caso eritreo però si differenzia. A chi non paga viene negata la possibilità di rinnovare i documenti, di compiere atti giuridici in patria (acquistare e vendere immobili, partecipare alla successione testamentaria), di inviare aiuti ai familiari, di rientrare nel Paese. Chi non ha redditi o lavora “in nero” deve dimostrare la sua condizione con documenti del Paese ospitante o con la testimonianza di persone di fiducia di ambasciate o consolati.
Per Asmara l’imposta è una fonte di valuta estera (rigorosamente) in contanti. Questo flusso di denaro insospettisce l’Onu, che con la risoluzione 1907/2009 del Consiglio di sicurezza punta il dito contro l’imposta come possibile fonte di finanziamento delle armi destinate agli shabaab, i fondamentalisti islamici somali.
Sull’onda della risoluzione il Canada pretende che Asmara adotti sistemi di pagamento tracciabili. In Svezia un gruppo di espatriati presenta una denuncia alla polizia perché, a loro parere, l’imposta, oltre a violare i diritti umani degli emigrati, violerebbe la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari: della questione inizia a occuparsi anche il Parlamento. Anche in Svizzera e in Germania sono in corso indagini da parte delle autorità.
Gli eritrei denunciano l’assenza delle istituzioni italiane, anche perché il mancato pagamento dell’imposta impedisce il rilascio di alcuni documenti. Quando un eritreo chiede la cittadinanza, ad esempio, le Prefetture pretendono il certificato di nascita e i carichi pendenti nel Paese di provenienza, documenti rilasciati solo nelle ambasciate o nei consolati (e solo dietro pagamento della “diaspora tax”). Spesso poi le Prefetture, al momento di rilasciare il documento di viaggio ai richiedenti asilo eritrei, chiedono loro il passaporto. Se non ce l’hanno li obbligano a tornare in ambasciata o nel consolato. Qui, oltre a pagare del 2%, i rifugiati (spesso renitenti alla leva fuggiti dall’Eritrea) sono spesso costretti a firmare documenti in cui ammettono di essere traditori della patria. I funzionari italiani cui vengono fatte notare tali difficoltà chiedono che si porti loro una testimonianza scritta. Ma non ce ne sono: gli eritrei non rilasciano dinieghi scritti. —

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