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Altre Economie

La solidarietà in vigna

Nell’Oltrepo pavese Barbera e Pinot Nero sono un simbolo di integrazione: “La Vigna” in vent’anni ha accolto 130 persone

Tratto da Altreconomia 146 — Febbraio 2013

“Quel forno ce l’ha regalato una pizzeria”, mi spiega Marino, mentre attraversiamo il cortile dell’azienda. Serve quando questo posto si riempie di volontari, per la vendemmia. “All’ultima ne sono venuti 80”. Costeggiamo l’orto (“un progetto nato grazie a Mani Tese”) e il recinto degli asini.
A sinistra, scorre lo Scuropasso, il corso d’acqua che dà il nome a questa valle dell’Oltrepo pavese, una delle tre nelle quali si estende il Comune di Montecalvo Versiggia, dove ci troviamo. “Dall’altra parte della strada è un’altro comune: cambia il prefisso, e loro hanno l’Adsl. Io no”.
Magari non lo conoscete Marino Musina, anche se il viso dagli occhi chiari di questo goriziano non ancora cinquantenne si ricorda facilmente. Più facile che conosciate il suo Pinot nero, o la sua Bonarda: sull’etichetta c’è scritto “La Vigna” e le bottiglie le trovate nelle botteghe del commercio equo o nel paniere dei gruppi di acquisto solidali. Chi vuole, può venire a prenderle qui.

Saliamo sulla collina (“il vino buono si fa tra i 300 e i 450 metri” mi spiega Marino). Montecalvo è nella fascia collinare più interna dell’Oltrepo, a 10 chilometri dalla pianura, nella parte centrale.
Si estende dalla Valle Versa a Est alla Valle Scuropasso ad Ovest ed è delimitata a Sud dalla zona montana, mentre a Nord si incunea tra i rilievi della prima collina.
È costituito da due alture collinari, il centro del territorio è solcato dalla Valle Versiggia. I ripidi pendii si vanno addolcendo verso Est. “E là in fondo, col bel tempo, si vede la Grigna”. Ma non oggi, oggi è nuvoloso. Salendo incontriamo Fatos: è tempo di potature. In cima, i segni dei cinghiali, hanno ribaltato il terreno: “Almeno così non abbiamo bisogno di fresare”.
Marino mi mostra i vigneti: i due ettari di Pinot, i 3 ettari e mezzo di Bonarda. Poi ci sono il Riesling italico, l’uva Barbera (“la riconosci perché ha gli acini più grandi”), il Moscato. In tutto, 9 ettari e mezzo. Entrando in paese, ho letto il cartello che indica l’inizio della zona Docg per il vino. “Ma noi abbiamo scelto di non avere la denominazione. Siamo certificati bio da Icea, ma solo per l’uva, e non per la cantina. Costa troppo. I solfiti li usiamo al minimo indispensabile”.
Proseguiamo il nostro giro. Marino mi mostra il primo vitigno, che ormai ha 25 anni, e il recente impianto che risale a 7 anni fa.
Lungo il percorso incontriamo anche una sorgente. L’abbondanza di acqua, e le piogge torrenziali di qualche mese fa, hanno distrutto la strada. “Un geologo della bottega di Finale mi ha spiegato che la falda è piena d’acqua, anche a causa di tutti gli ‘scassi’ che gli altri viticoltori hanno fatto qua attorno”. Gli “scassi” sono modifiche importanti della superficie collinare, e da queste parti si arriva a “scassare” anche fino a un metro e venti di profondità.

È di Gorizia, Marino, ma è qui da oltre 20 anni, come spiega in casa, davanti a un bicchiere di Pinot nero vinificato in bianco. È della vendemmia 2012, una vendemmia arrivata presto, e quindi il vino a gennaio è già in commercio. Poco più che ventenne si trasferisce in Costa D’Avorio per un’esperienza di cooperazione allo sviluppo che dura tre anni, tra il 1985 e il 1987.
Conosce don Luigi Ciotti e il Gruppo Abele, a Torino, per il quale inizia a lavorare al suo rientro in Italia.
Nel frattempo, entra in contatto con la Cascina Monluè e la Cascina Nibai, di Milano, e con loro ha l’idea di dare vita a un luogo dove fare accoglienza ai migranti. Dove farli lavorare e, con loro, immaginare un percorso per tornare a casa, con un progetto economico.
È così che finisce a Montecalvo, in località Carolo: “Abbiamo trovato un annuncio su Secondamano per la cascina. Il vigneto c’era già”, spiega. Nel 1990 nasce l’associazione “La Vigna”, e subito parte il lavoro di accoglienza, dieci persone alla volta. Non è stato facile immaginare una comunità come questa in un paese che si estende per oltre 50 chilometri quadrati e nel quale vivono 600 persone, distribuite in 40 frazioni, spesso costituite da case sparse tra le vigne.
A oggi, da qui sono passate 130 persone che in un modo o nell’altro, lavorando, hanno cercato di ricostruirsi una vita in patria. L’ultimo progetto concluso è stato col Senegal. Oggi, oltre a Fatos, ci sono altre tre persone: sono tutti provenienti dall’Albania. Tra loro c’è Ervin, non ancora ventenne. Lo incontriamo mentre si occupa degli asini.

L’idea di Marino si concretizza: fare inserimento lavorativo nel settore agricolo nell’Oltrepo pavese, quella parte di Lombardia fatta a forma di grappolo d’uva dove molti terreni sono abbandonati o in vendita e l’età media dei lavoratori diretti è di circa 70 anni (mentre i giovani se ne vanno) e tentare il reinserimento nei Paesi d’origine. Una prospettiva che prevede tre momenti: lo studio e la messa a punto del progetto, il lavoro in cooperativa o presso contadini per permettere a chi vuol tornare nel proprio Paese di raccogliere una somma necessaria e investirla nel progetto, momenti di verifica tra tutti i membri della comunità di accoglienza.

I vigneti vengono presi in carico nel 1992, quando si costituisce la cooperativa agricola di conferimento, che mira ad attrezzare anche la cantina con un’imbottigliatrice. Grazie ai contatti col mondo del commercio equo e solidale, arriva l’idea di utilizzare il canale delle botteghe come privilegiato per la vendita del vino. Per diverso tempo, il fatturato coincide col costo dell’affitto dei terreni, che diventano di proprietà dopo 7 anni attraverso un mutuo.
“La cosa ha funzionato e le bottiglie sono diventate subito 25mila -mi spiega Marino-. Nel 1994 organizziamo addirittura un convegno internazionale a Milano”.
“Questo ci spinge, nel 2001, a reimpiantare una parte del vigneto. Una scelta importante: l’investimento è stato di 130mila euro, cui vanno aggiunti i costi annuali di ‘fermo’”. E la Politica agricola comunitaria? “Un contributo di 2mila euro, sì e no”.
Oggi la cooperativa serve 20 gruppi di acquisto e una trentina di botteghe del commercio equo. Col suo furgone, Marino arriva fino a Roma a consegnare le bottiglie. Costano 2,80 più Iva l’una, e la consegna è gratuita (ma si devono prendere almeno 120 bottiglie).
Ma è in difficoltà: “Le vendite sono scese, in bottega sono apparsi altri vini. Ci rivolgiamo molto ai gruppi di acquisto, ma sembra non bastare. Soprattutto, dobbiamo far fronte ai debiti contratti”. Per questo (come abbiamo anticipato su Altreconomia di settembre 2012) Marino e soci mettono in piedi un’iniziativa di “azionariato popolare”, per creare una nuova società agricola -che nasce proprio a febbraio 2013- che, acquisendo la proprietà dei terreni, garantirebbe la continuità del prodotto e la sopravvivenza della cooperativa.
Marino e soci propongono di acquisire 100 quote da 5mila euro, ciascuna suddivisibile in cento sottoquote da 50 euro, per dare capitale alla nuova realtà. L’idea delle sottoquote è pensata proprio per i gruppi di acquisto solidali, che potrebbero facilmente raccogliere la cifra necessaria.
La maggior parte del capitale verrebbe utilizzato per coprire debiti e mutui, il resto in investimenti.
A oggi sono state raccolte quote per 50mila euro (tra queste, anche alcuni lettori e soci di Ae), ma il percorso è ancora lungo.
Se volete sostenere La Vigna, potete contattare Marino ai riferimenti che trovate sul sito www.lavignasolidale.it. Oppure potete direttamente andarlo a trovare.

Magari fra qualche mese, quando questi vigneti produrranno i grappoli del Barbera, che dal Piemonte si è spostato in Oltrepo sin dal 1800. Qui a La Vigna sta accanto al Riesling italico, la cui origine qualcuno fa risalire addirittura all’Impero Romano, mentre altri sostengono la provenienza da Francia e Austria. In mezzo ci sono il Moscato, vitigno bianco aromatico e particolarmente zuccherato, fra i più antichi esistenti e originario dell’Asia minore, da dove è stato diffuso in tutto il Mediterraneo da greci e fenici. A insegnare che dall’incontro nascono sempre buoni frutti. —

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