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La silenziosa legge dei padrini padani
Pizzo, usura e, per riciclare il denaro sporco, attività commerciali lecite: la ‘ndrangheta ha conquistato anche il varesotto, coperta dall’omertà Lonate Pozzolo (Va) – “Sapete -quasi si scusa il nostro interlocutore- qui non è come al Sud, dove almeno la…
Pizzo, usura e, per riciclare il denaro sporco, attività commerciali lecite: la ‘ndrangheta ha conquistato anche il varesotto, coperta dall’omertà
Lonate Pozzolo (Va) – “Sapete -quasi si scusa il nostro interlocutore- qui non è come al Sud, dove almeno la gente ha cominciato a ribellarsi alla mafia”. La persona che ci offre questo improvviso ribaltamento del senso comune è un amministratore di un comune del varesotto. Le condizioni per l’intervista non sono trattabili: niente nome, niente foto. Perché nel più profondo Nord, nel cuore della Lombardia, chi parla di certe cose rischia di trovarsi isolato, più di quanto possa accadere in Sicilia, in Campania, in Calabria. La presenza mafiosa non è così visibile da far nascere un movimento di reazione civile, ma è abbastanza forte da imporre l’omertà.
L’ultima grande operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano ha colpito proprio la provincia di Varese, svelando un quadro sconcertante: commercianti e imprenditori soffocati dal pizzo, avvinghiati dai tentacoli dell’usura, costretti a cedere l’attività o ad assumere personale imposto dagli estorsori. Minacce, incendi, pestaggi e colpi di pistola finivano per convincere quelli che cercavano di resistere o semplicemente di prendere tempo. Storie che siamo abituati a leggere nelle cronache dal Sud, mentre finora le inchieste sulla mafia nel Nord Italia ci avevano raccontato soprattutto di “famiglie” impegnate nel grande traffico di cocaina o nell’assalto a business legali, dall’edilizia al commercio. Affari milionari che non vale la pena di compromettere per incassare qualche migliaio di euro in più dal barista o dal salumiere. In Lombardia il pizzo è un fantasma spesso evocato, un’ombra che passa quando salta in aria un magazzino (“sarà stata una fuga di gas…”) o brucia un negozio (“forse per un cortocircuito…”). Nell’inchiesta condotta sul campo dai carabinieri del Reparto operativo di Varese, il fantasma ha preso in corpo in nomi, volti, numeri.
Lonate Pozzolo, Ferno, Somma Lombardo,Vanzaghello, Oleggio, Gallarate: una manciata di comuni intorno all’aeroporto di Malpensa erano diventati terreno di conquista della ‘ndrangheta. Il 30 aprile 2009, i carabinieri hanno arrestato 41 persone in diverse regioni italiane su richiesta dal sostituto procuratore Mario Venditti. Sono finiti in carcere presunti boss e picciotti, prestanome e colletti bianchi, molti calabresi ma non pochi lombardi “doc”. Secondo l’accusa a Lonate Pozzolo, comune di circa 12mila abitanti, esisteva un vero e proprio “locale” di ‘ndrangheta, comandato dalla famiglia Filippelli. Questo rispondeva a un altro “locale” lombardo, quello della vicina Legnano, guidato dal boss Vincenzo Rispoli. “Enzo è una potenza qua in Lombardia -chiarisce uno degli arrestati in una conversazione intercettata-,
fa così e si muovono duemila persone di colpo… si girano e corrono”. Sopra tutti stava il clan Farao-Marincola di Cirò Marina, uno dei più potenti della ‘ndrangheta crotonese. Cirò è il paese di origine di gran parte degli accusati e di centinaia di famiglie calabresi residenti a Lonate e dintorni.
“A Lonate funziona così”. Le carte della Procura contestano agli accusati episodi di sfacciata arroganza e intimidazioni plateali. Come la volta che una decina di uomini guidati dai fratelli Mario e Nicodemo Filippelli, ritenuti i vertici dell’organizzazione lonatese, si presentarono al night club “El Patio” di Vanzaghello, vittima di “attenzioni” durate diversi anni e mai denunciate alle forze dell’ordine. Dai titolari pretendevano un servizio completo: soldi, consumazioni gratuite, un tavolo per le riunioni e una quota di entreneuse da assumere su loro indicazione. Per rendersi più convincenti, avevano lasciato fuori dall’ingresso una bombola di gas appoggiata su un fornelletto acceso. Uno dei titolari fece appena in tempo a disinnescarla. Al Lady G di Varese, ogni sera un emissario del clan passava a ritirare una quota dell’incasso, perché c’erano “dei ragazzi da mantenere in carcere” (a loro provvedeva una cassa comune del clan, detta “la bacinella”). Alla fine il proprietario fu costretto non solo a vendere il locale a persone indicate dai calabresi, ma anche a pagare loro venti milioni di lire -siamo alla fine del 2001- per ricompensare l’intermediazione nell’“affare”.
Non erano soltanto i locali notturni a finire nella ragnatela. Il bar Moro, in pieno centro, è il più vecchio di Lonate Pozzolo, ma a un certo momento si è ritrovato a essere nel posto sbagliato: troppo vicino a un altro bar gestito dalla moglie di Mario Filippelli che, secondo l’accusa, l’aveva ottenuto dal vecchio titolare dopo avergli incendiato la macchina. Il 7 settembre 2000 il bar Moro è andato a fuoco. Il 19 marzo 2001, il proprietario ha trovato due bottiglie di benzina davanti alla saracinesca. Nel 2004 sono piovuti colpi di pistola sulla vetrina. Nel frattempo, gli uomini del clan avevano preso l’abitudine di piazzarsi per ore davanti al bancone, per tenere lontani i clienti e creare, si legge nelle carte, “una situazione di minaccia passiva e tacita”. I proprietari, alla fine, cedono il locale. Alle cinque del pomeriggio del 27 novembre 2005, tra pensionati che giocano a carte e clienti imbacuccati che bevono il caffè al banco, spunta un uomo con il casco e la pistola. Spara a un nipote di Nico Filippelli, Giuseppe Russo, imprenditore edile e pregiudicato per armi, estorsione e droga. La scena resta impressa nelle telecamere di sorveglianza del bar. Russo cerca di fuggire verso il bagno, pare che inciampi, si rialza con un rapido riflesso ma crolla di nuovo a terra per non rialzarsi mai più.
Sono tanti i negozianti del centro di Lonate, dominato dalla statua di Sant’Ambrogio (nella foto in basso a sinistra di p. 12) e dall’imponente chiesa a lui dedicata, che si sono dovuti piegare per anni alle minacce, ai pestaggi, ai danneggiamenti. Sono tanti quelli che alla fine hanno deciso di abbandonare l’attività di una vita. Il Bar Atlantic pagava 1.500 euro al mese perché “a Lonate funziona così”, intimavano gli estorsori. Il titolare, subentrato al vecchio ormai esausto, è stato più volte pestato e, in un’occasione, accoltellato. Tra Lonate e i comuni vicini la rete delle tangenti toccava panetterie, parrucchieri, mobilieri, imprese artigiane. A volte gli estorsori ricorrevano a un vecchio trucco: minacciavano anonimamente un commerciante e poi si presentavano per offrire protezione, dietro lauto compenso.
Chi cercava di resistere si andava a mettere “in una situazione un attimino del cazzo”, per usare le parole di un elemento di spicco dell’organizzazione. Il 2 aprile 2007 è toccato a Barbara Viadana, gambizzata nell’agenzia immobiliare dove lavorava a Parabiago, in provincia di Milano. Secondo l’accusa, i due sicari erano stati mandati lì da Pasquale Rienzi, ritenuto uomo di Vincenzo Rispoli, con l’ordine di sparare alla sorella di Barbara, Emanuela, titolare dell’agenzia ed ex socia di Rienzi in affari poco limpidi. Trovatisi di fronte una donna, i due non sono stati troppo a pensarci e hanno sparato al bersaglio sbagliato. Il movente? Emanuela Viadana aveva deciso di denunciare Rienzi dopo che qualcuno aveva sparato contro la sua macchina mentre stava viaggiando con il marito e i figli. Nelle telefonate intercettate, si sente Rienzi dire “vi faccio fuori tutti e quattro… pure il cane vi ammazzo”. E se non saltano fuori i soldi, urla a Emanuela tra bestemmie e insulti, “piuttosto mi giri la casa”.
L’usura sommersa, i tassi stellari. L’inchiesta della Dda di Milano dà corpo a un altro fantasma lombardo, quello dell’usura, fenomeno sul quale si registrano statistiche allarmanti ma poche denunce in commissariato. A volte esplodono casi fragorosi, come quello del tabaccaio milanese che si è suicidato a luglio lasciando una lettera con nomi e cognomi dei suoi strozzini. Il suo non doveva essere un caso isolato se nella fiaccolata in suo ricordo sono arrivate 300 persone, per lo più commercianti.
Nelle carte dell’accusa a carico del clan di Lonate Pozzolo le storie sono tante e drammatiche. Il meccanismo dell’usura è ricostruito in ogni dettaglio. Si racconta per esempio di un lonatese che ha bisogno di 20 mila euro e si rivolge agli uomini del clan. Questi prelevano il denaro contante da un “fondo” custodito dalla suocera di Nico Filippelli. La somma è girata al destinatario attraverso vaglia postali che recano la causale “acquisto Bmw”.
È l’8 marzo 2007: il destinatario firma contestualmente tre assegni da 11 mila euro datati due mesi dopo: 2, 3 e 6 maggio. In sessanta giorni il guadagno netto degli usurai è pari a 13mila euro. Il tasso d’interesse applicato è stellare: 32 e mezzo per cento al mese.
È ovvio che molti non ce la facessero a rientrare: così, sempre di fronte a un prestito di 20mila euro un’altra vittima è stata costretta a cedere una mansarda che ne valeva 55mila. Una signora in difficoltà, a fronte di 1000 euro ha dovuto compilare quattro assegni postdatati per un totale di 1.300 euro, con un tasso d’interesse mensile del 30 per cento.
Com’erano individuate le vittime? Secondo l’accusa, attraverso gli “accertati rapporti privilegiati che alcuni esponenti del sodalizio erano riusciti a instaurare con il sistema bancario locale”, che “consentiva loro di acquisire in modo illecito informazioni per indirizzare con più profitto la scelta delle potenziali vittime di usura ed estorsione”. I documenti giudiziari citano in proposito “Banca di Legano-filiale di Cardano al Campo, Intesa-Sanpaolo
-filiale di Lonate Pozzolo, Banca popolare di Intra-filiale di Lonate Pozzolo”. Questi “rapporti privilegiati” erano utili anche per “decidere tempi e modalità della presentazione all’incasso di assegni e cambiali ricevuti a titolo di garanzia dai soggetti già caduti nella rete predatoria”. Capitava anche che Nico Filippelli e altri membri dell’organizzazone si presentassero in queste banche con regali -per esempio delle camicie- per ingraziarsi gli impiegati.
Il denaro veniva ripulito, secondo gli investigatori, attraverso fatture false emesse da una rete di società, soprattutto immobiliari ed edilizie. Due di queste sono protagoniste dell’acquisto e della ristrutturazione di un’ex colonia delle suore Orsoline a Vigolo, in provincia di Bergamo, destinata a diventare una casa di riposo con 148 letti da accreditare presso la Regione Lombardia. Nel novembre 2007, a un’assemblea pubblica indetta a Vigolo per presentare il progetto alla cittadinanza ha preso la parola anche Agostino Augusto, gestore della società Makeall, che ha sottolineato la “bontà dell’investimento”. Oggi la Dda lo accusa di essere un colletto bianco della ‘ndrangheta e la Makeall è inserita nell’elenco delle società a disposizione del clan. Augusto risulta indagato anche a Pavia, per un’altra vicenda collegata a un progetto di casa di cura nella località Costa De’ Nobili.
La scalata silenziosa di quelli con la catena d’oro. Come è potuto succedere, nel cuore della Lombardia? In paese raccontano che molti, calabresi e non, consideravano normale rivolgersi a Enzo Rispoli per risolvere problemi. Capitava di litigare con qualcuno poco raccomandabile? Don Enzo faceva in modo che la cosa finisse lì. Si doveva lasciare l’auto in strada durante le vacanze? Bastava parcheggiarla nei pressi di un certo negozio per essere certi di ritrovarla al ritorno, e senza un graffio.
“I segnali erano chiari”, dice l’amministratore che non vuole essere nominato. Le vittime erano restie a firmare una denuncia davanti ai carabinieri, ma sottovoce chiedevano aiuto a sindaci, assessori, consiglieri comunali. “Abbiamo tante spese, di un tipo e dell’altro tipo”, alludevano i commercianti finiti nel mirino degli esattori. Nei paesi piccoli, poi, lo noti subito “se uno che neanche lavora va in giro su una Mercedes fiammante”. Negli uffici comunali, “te ne accorgi se sconosciuti architetti del Sud si presentano carichi di nuovi progetti edilizi”, se imprese che hanno appena aperto la partita Iva “sono già pronte ad affrontare lavori molto impegnativi”. Può anche capitare di ricevere minacce a viso aperto, nella piazza principale, così che tutti possano sentire e capire chi è il più forte, tra l’autorità pubblica e quella della ‘ndrangheta. Nella popolazione scattano meccanismi di ipocrita autodifesa, anche di fronte ai cadaveri. In un anno, dal 2005 al 2006, tra Lonate e Ferno ci sono state tre esecuzioni mafiose, dovute secondo i carabinieri a scontri di potere interni al clan. Oltre al citato Russo, sono morti Cataldo Murano, trovato carbonizzato nella sua Golf in una strada di campagna, e suo fratello Alfonso, a cui gli assassini hanno inferto lo sfregio di un colpo di pistola in faccia quando era già cadavere. “La reazione dei cittadini era di distacco -ricorda l’amministratore-. A restare in terra erano gli ‘altri’, i corpi estranei, quelli che giravano con la camicia aperta, i peli di fuori e la catena d’oro. E finché si ammazzano tra di loro…”.
Con le mani nel cemento
Mentre ci si interroga sui rischi di infiltrazione della criminalità organizzata nelle grandi opere lombarde, i rischi sono già diventati realtà. L’ennesima conferma arriva da un rapporto dei carabinieri di Varese che hanno indagato su Lonate e dintorni. Nell’area tra Milano, Malpensa e il Sempione, spiega il rapporto, personaggi legati ai clan di Cirò Marina “riuscivano a garantirsi appalti di cantieri anche di grosse dimensioni e a decidere a quali aziende cedere o subappaltare i lavori, dietro corresponsione di una percentuale sui guadagni”. Quei personaggi, infatti, erano “quasi tutti legati ad attività connesse con l’edilizia, come titolari di imprese di costruzione e/o movimento terra, artigiani o meri prestatori di manodopera”.
Nella stessa zona è insediata anche Cosa nostra.
In particolare, scrivono ancora i carabinieri, uomini legati alla famiglia gelese dei Rinzivillo, molto attiva in Lombardia, e a un boss di prima grandezza come Giuseppe “Piddu” Madonia.
Obiettivo Malpensa
A Lonate Pozzolo e nei comuni vicini c’è un business più sostanzioso del pizzo e dell’usura: l’aeroporto di Malpensa. Il ramo è quello edilizio, dove la ‘ndrangheta in Lombardia va notoriamente forte, e i segnali di interesse non sono mancati. Lonate si trova sulla rotta di decollo e atterraggio dei jet, e il loro frastuono ha reso invivibili alcuni quartieri residenziali ai margini del paese. Dopo le inevitabili proteste, gli abitanti hanno ricevuto indennizzi per trasferirsi altrove. Ora, crisi di Malpensa permettendo, le aree rimaste libere dovrebbero convertirsi in nuovi servizi per i passeggeri: parcheggi, centri commerciali, alberghi, anche in vista dell’Expo 2015. “È una speculazione edilizia a rischio di infiltrazioni mafiose”, denuncia Modesto Verderio, 56 anni, consigliere comunale della Lega Nord (nella foto a fianco). “Solo a Lonate sono stati presentati una ventina di Piani integrati del valore di milioni di euro, tra hotel a 5 stelle, motel, centri sportivi…”. Antiquario appassionato di belle macchine, Verderio è il politico lonatese più apertamente impegnato sul fronte antimafia. A partire dal 2005 ha cominciato a raccogliere le confidenze dei commercianti su quel “sottobosco circondato da omertà”, ricorda, che nessuno aveva il coraggio di denunciare pubblicamente “per paura, per non mettere a rischio la famiglia, per evitare danni peggiori all’attività”. Queste confidenze, immediatamente girate ai carabinieri, hanno dato una spinta importante alle indagini sfociate negli arresti di aprile.
Secondo Verderio, la criminalità organizzata sta dimostrando interesse per il business immobiliare legato all’aeroporto. E lo sta facendo a modo suo. Il 10 luglio 2008, proprio nel cortile del municipio di Lonate, una bottiglia molotov ha provocato l’incendio della Mercedes di Orietta Liccati, dirigente dell’Ufficio tecnico. Il 27 gennaio 2009 è toccato al Suv di Danilo Rivolta, segretario cittadino di Forza Italia e titolare, insieme al fratello, del più importante studio di architettura della città, quello da cui passano tutti i progetti più importanti prima di approdare in Comune per essere approvati.
La vittima evocò all’epoca una “chiave politica” dell’intimidazione subita. Dopo le ultime elezioni, vinte da una maggioranza Pdl-Udc guidata dal sindaco Piergiulio Gelosa, Danilo Rivolta è diventato assessore al Territorio, Interventi urbanistici, Edilizia privata e Marketing territoriale. Una scelta moto discutibile, secondo Verderio: “È assurdo che quel posto sia occupato da una persona che ha interessi nel maggiore studio di architettura di Lonate e che ha subito pressioni mafiose di quel tipo. La politica non può essere debole di fronte ai tentativi di infiltrazione. Mi auguro che l’amministrazione di Lonate sia in grado di contrastarli, noi vigileremo”.
Nella campagna elettorale di giugno, Modesto Verderio ha corso da solo per la Lega e ha organizzato una fiaccolata antimafia. “Sono arrivate appena una cinquantina di persone, nessuna di Lonate”. Grande successo, invece, per l’ex velina bionda Maddalena Corvaglia, convocata a sostenere il candidato di Pdl e Udc. Alla prova delle urne Verderio, il consigliere che aveva avuto il coraggio di rendere pubblico il dramma nascosto di molti suoi concittadini, è risultato il meno votato di tutti.