Economia
La sfida di Termini Imerese
Pubblichiamo la riflessione che Tonino Perna, professore di Sociologia economica all’Università di Messina e co-fondatore di Altreconomia, ha dedicato alla Fiat in occasione dello sciopero Fiom del 28 gennaio. L’articolo è stato pubblicato dal quotidiano il manifesto. Da tre giorni…
Pubblichiamo la riflessione che Tonino Perna, professore di Sociologia economica all’Università di Messina e co-fondatore di Altreconomia, ha dedicato alla Fiat in occasione dello sciopero Fiom del 28 gennaio. L’articolo è stato pubblicato dal quotidiano il manifesto.
Da tre giorni è ripreso il lavoro allo stabilimento Fiat di Termini Imerese dopo tre settimane di sosta obbligata. Ma, non c’è futuro per i 2200 addetti dell’azienda Fiat e gli altri duemila dell’indotto. La nuova Ypsilon, che doveva nascere nel 2010 in questo stabilimento, poi rimandata al 2011, vedrà la luce il prossimo anno. Da un’altra parte: negli stabilimenti Fiat in Polonia. Nessun nuovo modello verrà prodotto dalla Fiat a Termini Imerese, cittadina di 27.000 abitanti che è totalmente dipendente, insieme al suo hinterland, da questo insediamento industriale. Il 18 giugno del 2009 Marchionne dichiarava alla stampa che lo stabilimento di Termini Imerese sarebbe stato convertito per altre produzioni industriali. Naturalmente, il Ceo, come si chiamano i big manager, non dava altre informazioni. Da alcune indiscrezioni emergeva un’ipotesi di produzione di cabine per trattori, senza saperne di più. Adesso c’è la chiusura e basta, senza tante discussioni. Ed invece la discussione su questo stabilimento va ripresa subito perché qui si gioca una sfida decisiva, come cercheremo di dimostrare. Prima di tutto se la Fiat chiude e non si trovano alternative per gli oltre quattromila lavoratori, tra addetti ed indotto, questo fatto avrà conseguenze disastrose su tutte le altre vertenze in atto in tutti i settori. La forza di Marchionne è stata finora questa: aprés moi le deluge. O le mie condizioni o il nulla, il deserto. Se si riuscisse a dimostrare che esiste un dopo-Fiat, con aziende che ripartono rispettando diritti del lavoro e dell’ambiente, si avrebbe una svolta positiva nella relazione capitale-lavoro nel nostro paese, e non solo. Al momento la situazione è molto confusa ed oscura. Romani, il neoministro dello Sviluppo economico, ha dichiarato che entro fine gennaio si concluderà l’accordo di programma per Termini Imerese che prevede sette tipologie manifatturiere (di cui due per l’auto) per un totale di 3.300 posti di lavoro (boom!). Per Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom di Palermo, si tratta di un film già visto. Annunci che producono altri annunci, mentre al sindacato è impedito di conoscere i piani industriali -se ci sono veramente- e capire che fine faranno le diverse qualificazioni delle maestranze quando questo “spezzatino” dovesse essere cucinato. Ed è questo un secondo punto nodale della sfida di Termini Imerese: il diritto all’informazione da parte dei lavoratori. In questo caso, dato che la Regione Sicilia, oltre che lo Stato, ci metterà risorse finanziarie c’è un diritto di cittadinanza a conoscere che fine faranno i nostri soldi. La questione dell’informazione è una questione politica di prima grandezza, e non è un caso che Marchionne su questo punto non ceda un millimetro del suo monopolio informativo. C’è ancora un terzo livello di discussione che la chiusura della Fiat in Sicilia apre. Dato che lo stabilimento Fiat è stato costruito nel 1970 con lauti finanziamenti della Regione Sicilia (che allo scopo costituì una società mista Sicilfiat), oggi l’azienda non può dire “basta, chiudo e mi porto a casa macchinari ed attrezzature”. La Regione Sicilia dovrebbe pretendere che rimangano sul territorio le attrezzature o almeno che possano essere acquistate ad un prezzo “politico”. È questo un fatto che riguarda tutte le aziende che chiudono dopo essere state lautamente finanziate da enti pubblici. Ci vorrebbe al più presto una legge ad hoc, sull’esempio della legge argentina 2002 che ha permesso l’avvio del sorprendente fenomeno sociale delle “imprese recuperate”, che conta ancora oggi più di quattrocento aziende autogestite ed in buona salute. In Italia siamo ancora molto lontani solo dal pensare che una grande azienda possa essere autogestita dalle maestranze, malgrado esistano capacità tecniche e imprenditoriali eticamente orientate. Eppure gli esempi non mancano. La Banca popolare Etica è una banca non profit, con i bilanci a posto ed un crescente numero di filiali, malgrado non sia vocata alla massimizzazione del profitto. Il commercio equo e solidale ha ormai superato i cento milioni di euro di fatturato , sostenuto da una rete di botteghe non profit, pagando molto di più i produttori del sud del mondo rispetto al mercato capitalistico. È possibile immaginare che da Termini Imerese parta un’iniziativa di impresa che rispetti i diritti dei lavoratori e dell’ambiente e per questo, proprio per questo, riceva un appoggio convinto da parte delle reti del “consumo critico”, gruppi d’acquisto solidale, etc? In fondo una parte significativa dei consumatori (il 18% in Italia secondo la ricerca di Gianpaolo Fabbris del 2008) quando deve fare un ‘acquisto non guarda solo al rapporto prezzo/qualità, ma anche al valore sociale (come è stata prodotta) ed ambientale. Se la Fiat di Marchionne perde in Italia quote di mercato più di tutte le altre marche straniere non sarà solo perché fa modelli vecchi. Si domandi dottor Marchionne perché, per quale motivo, un cittadino italiano dovrebbe comprare oggi una auto Fiat? Si domandi come mai i sindacati dei metalmeccanici negli Usa da anni fanno campagne e manifestazioni con i cartelli con su scritto “Buy American” ed in Italia nessuno ne ha voglia? Le risposte le può trovare nello sciopero del 28, anche a Termini Imerese, dove accanto agli operai Fiat -che il 22 febbraio ritorneranno in cassa integrazione- hanno sfilato studenti e giovani disoccupati per indicare a noi tutti che un’altreconomia e società va costruita se non vogliamo autodistruggerci.