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Opinioni

La ricetta è una resilienza planetaria

Le azioni individuali possono poco di fronte ai cambiamenti climatici: è necessario un cambiamento politico —

Tratto da Altreconomia 148 — Aprile 2013

In principio era la “rilocalizzazione”, poi venne la “transizione” e oggi parliamo di “resilienza”. Tre concetti che nascono dall’idea che la società che conosciamo oggi non può sopravvivere a lungo, schiacciata tra l’esaurimento dei combustibili fossili e il cambiamento climatico. Una reazione possibile è costruire un ambiente che non dipenda più dai combustibili fossili, o che perlomeno ne dipenda poco. Coltivare la terra, imparare certe abilità manuali, dipendere di più dalle risorse locali, viaggiare di meno, non usare più l’auto, socializzare con i propri vicini: tutti modi per ridurre il proprio impatto sull’ecosistema.

Se cerchiamo l’origine di questi movimenti, la troviamo nella grande crisi del petrolio cominciata nel 1973, e che è dura ancora oggi. Il calo dei prezzi del petrolio negli anni 1980 aveva fatto pensare che il problema fosse stato risolto. Ma i problemi nascosti sotto il tappeto ricompaiono a vendicarsi. Quello del petrolio si è ripresentato a partire dal 2003, e sembrava presagire un declino imminente della produzione mondiale di greggio, l’arrivo del “picco del petrolio”. Ma dopo il grande rivolgimento della crisi finanziaria del 2008 la produzione petrolifera mondiale si è rifiutata di scendere grazie alle risorse cosiddette “non convenzionali”.

In alcune regioni, come gli Usa, è stato possibile addirittura aumentarla. L’industria non ammette ostacoli: il petrolio si deve tirar fuori in qualsiasi modo possibile; non importa a che costi e non importa la devastazione causata dall’estrazione. Questa tendenza continuerà finché il mercato finanziario sosterrà l’industria estrattiva, ancora per qualche anno. Il picco del petrolio è soltanto rimandato, ma questo cambia profondamente le cose rispetto al futuro che vedevamo pochi anni fa, quando molti consideravano l’esaurimento delle fonti energetiche come il problema principale che avevamo di fronte. C’era anche chi sosteneva che il declino del petrolio avrebbe automaticamente risolto il problema climatico. Ma non è andata così.

Il problema dell’esaurimento ha nettamente peggiorato il problema climatico: per estrarre la stessa quantità di energia occorre infatti utilizzare sempre più energia (per scavare pozzi più profondi, estrarre in aree remote e difficili da raggiungere,  trattare risorse che richiedono complessi e costosi processi per diventare combustibili).

Paghiamo più cara l’energia, aumentando i danni all’ecosistema. Gli ultimi dati, infatti, mostrano che la tendenza alla crescita della concentrazione del biossido di carbonio nell’atmosfera è inalterata. Non solo: c’è una preoccupante tendenza alla crescita delle emissioni di metano, un gas serra molto più potente del biossido di carbonio. Come conseguenza, in questi ultimi anni abbiamo visto un’accelerazione impressionante dei fenomeni connessi al cambiamento climatico: la fusione della calotta polare, le siccità, gli incendi, gli uragani e tutto il resto. E abbiamo scoperto -con orrore- che il cambiamento climatico non dà retta alle timide previsioni degli scienziati che lo volevano lento e graduale: più passa il tempo, più va veloce, e se passiamo il cosiddetto “tipping point” (il “punto di non ritorno”) niente lo fermerà più. Con il rilascio di enormi quantità di metano immagazzinato nel permafrost delle regioni artiche, ci potremmo trovare a essere i protagonisti di un romanzo di fantascienza, su un pianeta ostile, dove non vorremmo vivere e probabilmente neanche potremmo farlo. Arrivati qui, ci accorgiamo di un problema fondamentale: quando un gruppo di persone decide di consumare meno, ciò ha l’effetto di liberare risorse per chi ha preso la decisione opposta.
Un problema riconosciuto già nell’800 dall’economista William Stanley Jevons, che aveva notato che miglioramenti nell’efficienza energetica non portavano a una riduzione nell’uso del carbone. In una società basata sul libero mercato, maggiore efficienza o restrizioni volontarie ai consumi non hanno nessun effetto sui consumi totali. Il problema climatico è un problema globale e lo si può risolvere soltanto a livello globale. Non sappiamo se una soluzione sufficiente sarà una riduzione delle emissioni globali o se la situazione dell’ecosistema si è degradata a tal punto che avremo bisogno di misure molto più drastiche, quelle che vanno sotto il nome di “geoingegneria”, con tutte le incognite associate. Ma occorre agire, e per agire è necessario ottenere un consenso a livello internazionale. L’ottenimento del consenso è l’essenza del concetto di politica. Quello che ci troviamo davanti è un problema politico e come tale lo dobbiamo trattare. Le ultime elezioni in Italia hanno dimostrato che è possibile cambiare in modo sostanziale il panorama politico di un’intera nazione quando i problemi diventano talmente evidenti che non si può continuare a ignorarli, o a trattarli in modo tradizionale. Lo stesso risultato si può ottenere a livello internazionale se riusciamo a riportare il clima al centro dell’agenda. Abbiamo bisogno di una resilienza a livello planetario. —

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