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Opinioni

La retorica del merito

Il termine “meritocrazia” l’ha inventato, nel 1958, un sociologo britannico: per lui aveva un’accezione negativa, all’opposto dell’idea di democrazia. Oggi, però, quella parola è perfettamente in sintonia con l’idea del mercato “sovrano”

Tratto da Altreconomia 168 — Febbraio 2015

“L’avvento della meritocrazia” è un vecchio libro (pubblicato nel 1958, è da poco uscito in italiano per le Edizioni di Comunità) nel quale Michael Young, sociologo e personalità di spicco dei laburisti britannici, immagina una società dominata da una nuova aristocrazia, selezionata sulla base del Quoziente di Intelligenza (QI) e grazie a un sistema scolastico organizzato in sua funzione. Young è l’inventore del termine meritocrazia, oggi molto popolare e ben presente nel discorso pubblico, ma per lui aveva un’accezione decisamente negativa, all’opposto dell’idea di democrazia.
Il libro è una sorta di romanzo distopico, nel quale un sociologo immaginario, nell’anno 2034, ripercorre le tappe che hanno portato, a partire dal secolo precedente, all’avvento della nuova società, descritta come poco conflittuale grazie al riconoscimento di un principio universalmente accettato, appunto la prevalenza del merito. Il protagonista attribuisce l’acquiescenza delle classi basse, in passato bellicose e affascinate dalle idee socialiste, all’appagamento dovuto allo svolgimento delle mansioni materiali loro riservate al termine delle procedure di selezione basate sul merito. In aggiunta la società meritocratica spinge le persone meno intelligenti e quindi meno meritevoli a riversare sui figli ed eventualmente i nipoti ogni aspettativa di progressione sociale e di accesso ai piani alti della società attraverso l’istruzione migliore, riservata, per ragioni di efficienza, solo ai soggetti con i quozienti di intelligenza più alti.
“L’avvento della meritocrazia” fu pubblicato da Young per mettere in guardia contro i cedimenti che si intravedevano fra i laburisti nel campo dell’istruzione pubblica. L’invocazione dell’efficienza, l’insistenza sulla necessità di connettere la formazione scolastica con le esigenze dell’industria già si affacciavano, facendo traballare la visione egalitaria e democratica del partito. Letto oggi, questo libro ha vari aspetti destabilizzanti rispetto alla percezione corrente. La meritocrazia, nel discorso pubblico odierno, è considerata la medicina per curare nepotismi e clientelismi e perciò è accettata socialmente come un valore poco discutibile. D’altronde chi potrebbe sostenere che il merito non debba essere riconosciuto? Che a parità di requisiti, fra due pretendenti per un unico posto, non debba essere preferito chi dimostra di poter realizzare prestazioni migliori? E poi tutti siamo spinti, grazie a una retorica di lungo periodo, a sentirci dalla parte dei migliori; pochi si immaginano nel ruolo dei sommersi, dalla parte di chi viene escluso da un sistema di selezione che interviene fin dagli anni dell’infanzia.
Il punto, evidenziato  da Young, è che l’idea meritocratica dev’essere inquadrata in un’accezione più larga. Nel libro è un modo escogitato dalle classi dirigenti per cooptare le menti migliori dalla classe lavoratrice, in modo da disinnescarne  la capacità di organizzare il cambiamento politico e rivoluzionario. Oggi la meritocrazia, con tutto ciò che l’accompagna, ad esempio l’enfasi sulle “eccellenze”, sulla competizione interna e soprattutto internazionale, sull’efficienza economica e sulla misurabilità dell’istruzione, è in evidente sintonia con una visione del mondo che considera il mercato come l’unità di misura universale, la regola sociale sovrana.
I sostenitori della meritocrazia, al giorno d’oggi, si sentono degli innovatori. Si accreditano riforme come il numero chiuso nelle università, l’incentivazione dell’istruzione privata, la trasformazione progressiva delle scuole in aziende, l’apertura all’imprenditoria e così via. Il libero accesso all’università, la cosiddetta scuola di massa e la stessa idea che l’istruzione pubblica non sia finalizzata all’accesso nel mondo del lavoro sono considerati una morta eredità del passato. In verità uno sguardo storico appena più largo fa capire che la stagione della scuola per tutti e dell’istruzione come formazione di un cittadino consapevole è stata una breve parentesi nella storia del Novecento. In questo senso il libro di Young è un invito a maneggiare con una punta di sano sospetto il concetto di meritocrazia brandito dalle oligarchie contemporanee, a loro volta espressione di sistemi democratici che assai poco corrispondono all’idea fondativa di eguaglianza, libertà e partecipazione.
Lo stato di salute delle democrazie europee è quello che è: la partecipazione declina  e le forzature autoritarie sono frequenti. Nel libro di Young, il sociologo del 2034 sottovaluta uno sciopero organizzato dai “populisti”, unica opposizione rimasta, e fa una brutta fine: la pacificazione non era quel che sembrava. —
 

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