Interni
La resistenza di montagna
Belluno resiste all’abolizione: nell’area alpina è un ente fondamentale. L’ipotesi di una fusione con Trento e Bolzano —
Le iniziative degli ultimi governi sul tema Province avevano in comune l’assenza di concertazione con i territori interessati. Di fronte a queste manovre calate dall’alto si è avuta una forte reazione popolare nel bellunese, che da anni chiede invano al Veneto una forma di autonomia istituzionale, perché la problematica area alpina necessita di politiche diverse dal resto della regione, il cui territorio è per lo più di pianura. Vedersi cancellare all’improvviso anche la vecchia Provincia ordinaria fu la goccia che fece traboccare il vaso, un anno fa, quando 4mila persone, confluite nel capoluogo da tutte le valli, diedero vita a una grande manifestazione notturna cui prese parte anche il vescovo, monsignor Giuseppe Andrich, mentre su decine di vette si accendavano “fuochi per l’autonomia”.
Si sosteneva così l’azione politica di chi, a Roma, cercava di convincere il governo Monti che seguire criteri meramente demografici e accorpare Belluno a una grande provincia di pianura (come Treviso) equivaleva a un’omologazione mortificante per la rappresentanza democratica di questo ampio ma poco popoloso territorio dolomitico (oltre 3.600 chilometri quadrati e solo 210mila abitanti, vale a dire il 20% dell’estensione del Veneto ma poco più del 4% della popolazione). Pochi giorni dopo pareva fatta: le due province di Belluno e di Sondrio venivano escluse dal riordino. Si poteva riprendere il cammino delle lotte autonomistiche, rafforzate dal nuovo Statuto veneto, varato pochi mesi prima, che prevede il trasferimento a Belluno di diverse competenze: politiche transfrontaliere (confine con l’Austria), minoranze linguistiche (ladine e germanofone), governo del territorio, risorse idriche ed energetiche, viabilità e trasporti, attività economiche, agricoltura e turismo. Ma le cose precipitarono, il governo Monti cadde e per la Provincia tutto restò paralizzato: significava tenersi ancora il commissario nominato nel 2011 in seguito alle dimissioni del presidente. Oggi la situazione è la stessa: il rinnovo del consiglio provinciale è impedito dal governo e incombe la riforma Delrio “svuota Province”, l’unica speranza è che si faccia di nuovo un’eccezione per Belluno e Sondrio. Intanto, avanza lo spettro dello spopolamento delle terre alte e la crisi economica si abbatte pesantemente su un territorio fragile, che paga le politiche industriali imposte a Belluno come “compensazione” dopo la tragedia del Vajont e subisce forme di colonizzazione come lo smodato sfruttamento idroelettrico dei suoi corsi d’acqua (il 5% dell’energia nazionale viene da qui, vedi Ae 153). Quanto al turismo, deve affrontare la concorrenza delle altre due province dolomitiche, Trento e Bolzano, che però sono a statuto speciale e dispongono di mezzi finanziari e strumenti istituzionali maggiori. Al Trentino-Alto Adige come modello guardano in molti: da anni la battaglia si traduce anche in referendum comunali per cambiare regione, una forma di lotta senza effetti, perché in Parlamento tutto si blocca per evitare un effetto domino. Effetto evocato spesso dal presidente veneto, il leghista Luca Zaia, il quale, intervistato da Altreconomia, dice di approvare il trasferimento delle competenze al bellunese ma sottolinea che la Regione Veneto “non ha i fondi per attuarlo e ne avrà sempre meno”. In altra parole, non se ne fa nulla.
Sulle Dolomiti bellunesi, peraltro, continuano invece a ripetere che l’urgenza non è tanto avere più denaro pubblico disponibile (per quanto sia marcata la sperequazione con le vicine autonomie alpine) ma poter decidere localmente come utilizzarlo, perché l’agricoltura, i trasporti, la sanità e tutto il resto in montagna sono faccende assai complicate (e oggi si decide a Venezia, dove Belluno ha solo tre consiglieri regionali su sessanta). L’intera provincia aveva chiesto (con atto quasi unanime del consiglio nel 2010 e 20mila firme raccolte in poche settimane) di poter votare sull’addio al Veneto, ma la Cassazione, con una sentenza controversa, non lo ha consentito. Il sogno di una nuova regione dolomitica con tre province autonome resta l’obiettivo di molti a Belluno, a cominciare dal movimento Bard, che in questi anni -supplendo col volontariato al vuoto o all’inerzia della classe dirigente- ha costruito una rete di relazioni con le istituzioni di Trento e Bolzano (bellunoautonoma.regionedolomiti.it/blog). Tra i risultati palpabili c’è il disegno di legge regionale presentato in luglio dal centrosinistra per la riforma dello Statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige: per la prima volta si parla di cooperazione con Belluno. Sostegno alla battaglia autonomistica bellunese e a un legame istituzionale tra le province dolomitiche viene anche da Manuela Bottamedi, neoletta (il 27 ottobre) del Movimento Cinque stelle nel consiglio provinciale di Trento. Sulla questione Province ha un’idea più articolata della semplice abolizione propugnata dall’M5S: “Ci sono casi, per esempio le aree di montagna, in cui un ente intermedio è necessario per costruire politiche aderenti alle necessità dei cittadini. Se le Province ordinarie vanno superate dovrebbe essere per dare ai territori più autonomia trasferendo a nuove istituzioni di area vasta competenze da togliere a Stato e Regioni. Nel nostro caso specifico, poi, mi sembra chiaro che tre province nella stessa area montana dovrebbero lavorare insieme per il bene comune”. Al momento, tuttavia, regna l’incertezza e probabilmente molti si augurano che naufraghi la riforma Delrio e che si torni almeno a votare per la vecchia Provincia ordinaria che sarebbe una consolazione magra ma una base da cui ripartire in questo frustrante braccio di ferro. E pensare che il 12 ottobre scorso, a Longarone (BL) commemorando le duemila vittime del Vajont, il premier Enrico Letta aveva detto che serve un riequilibrio fra i territori dolomitici e che a Belluno va riconosciuta un’“autonomia forte”. —