La ragnatela del Leone
Da Trieste, Generali controlla il mercato italiano delle assicurazioni, grazie a intrecci societari e matrimoni d’interesse. Alle porte c’è un rinnovo del cda Appena scalfito dalla crisi, il Leone alato ruggisce ancora. Mentre migliaia di piccole aziende chiudono i battenti,…
Da Trieste, Generali controlla il mercato italiano delle assicurazioni, grazie a intrecci societari e matrimoni d’interesse. Alle porte c’è un rinnovo del cda
Appena scalfito dalla crisi, il Leone alato ruggisce ancora. Mentre migliaia di piccole aziende chiudono i battenti, il Gruppo Generali continua a macinare profitti, come gran parte del mondo bancario e assicurativo.
Ma Generali non è un’azienda qualsiasi. Insieme a Mediobanca è il più ambito salotto del capitalismo nostrano, crocevia dei grandi interessi finanziari e industriali, porta di ingresso dei “piani alti” del potere economico. Difficile non averci a che fare: basta sfogliare un quotidiano, fare una telefonata, presentarsi a uno sportello bancario o sostare in un autogrill per entrare in contatto, direttamente o meno, con il mondo Generali. Nel consiglio di amministrazione (cda) del Leone siedono le imprese che contano, ramificate in tutti i meandri della vita economica e politica del Paese attraverso una fitta rete di incroci azionari. In quella sede si fanno affari, si consolidano “amicizie”, si pianificano grandi operazioni o, semplicemente, si gestisce l’esistente, purché non venga intaccato il delicato equilibrio che garantisce a ognuno la sua rendita. Ogni decisione ha ricadute immediate sulla vita nazionale, se non altro perché da lì passa la maggior parte dei nostri risparmi.
A differenza dei concorrenti europei e americani Generali è uscita a testa alta dalla crisi, poiché non aveva infarcito i suoi bilanci di titoli tossici. Un atteggiamento lungimirante premiato dal mercato. Ma dietro i conti del Leone si nasconde una realtà fatta di posizioni dominanti, prodotti poco trasparenti, strategie di espansione che lucrano sui processi di privatizzazione nei Paesi in via di sviluppo e, immancabilmente, una solida rete di filiali e controllate nei più impenetrabili paradisi fiscali.
Qualche cifra. Prima compagnia in Italia e terza in Europa, presente in 64 Paesi, Generali gestisce risorse per oltre 400 miliardi di euro, frutto in gran parte dei premi versati dagli assicurati. Rispetto alle altre imprese le assicurazioni hanno un vantaggio e si chiama “inversione del ciclo economico”: i soldi li incassano subito e poi, se si verifica il sinistro, indennizzano l’assicurato. Questo porta nella casse delle compagnie una massa enorme di liquidità, anche quando il Paese è costretto a tirare la cinghia. Ai premi raccolti si aggiungono altri 350 miliardi provenienti dall’asset management, ossia dal risparmio raccolto e gestito dai fondi di investimento del Gruppo. Una quantità di denaro che supera di cinque volte il Pil del Marocco e che viene riversata sulle Borse mondiali facendo shopping di azioni, obbligazioni e titoli di stato, ma anche di immobili e terreni, creando un vero e proprio impero economico. Nel settembre 2009, l’81% delle risorse raccolte dagli assicurati confluiva verso titoli di Stato (oltre il 50%), obbligazioni e altri strumenti e reddito fisso, il 5% in immobili e l’8% in azioni. Anche prima delle crisi la compagnia aveva saputo mantenere un livello simile di titoli a reddito fisso e di azioni, proteggendo il patrimonio dai violenti ribassi azionari. Bassissima anche l’esposizione su titoli Lehman (intorno a 120 milioni di euro) e su derivati (non superiore al 3% del totale). Costruttori, industriali, banche e assicurazioni, tutti puntano ad entrare nella compagine azionaria del Leone, per beneficiare di un sistema di potere che garantisce lucrosi affari. Secondo un’indagine dell’Antitrust (gennaio 2009), oltre il 93% del settore assicurativo presenta “legami personali” con altre imprese finanziarie (il 21% considerando i soli intrecci azionari): ciò significa che le stesse persone figurano contemporaneamente nei cda di decine di società. All’interno del solo comparto assicurativo, tale soglia tocca l’81%. Una concentrazione che non ha eguali in nessun altro Paese europeo e che vede Generali di gran lunga al primo posto. Se a ciò aggiungiamo che le prime 5 compagnie controllano il 53% del mercato italiano, ne emerge un settore condizionato da pochi grandi colossi, collegati tra loro e capaci di imporre la loro offerta ai risparmiatori.
Scorrendo le partecipazioni del Gruppo, appare un elenco impressionante di incroci azionari (vedi tabella a fianco). Non meno ramificato l’assetto dei legami “personali”, che ampliano a dismisura l’influenza della compagnia: il presidente Antoine Bernheim, ad esempio, è anche vice presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa-Sanpaolo, membro del cda della controllante Mediobanca e di una serie di società estere; il suo vice Gabriele Galateri di Genola è presidente di Telecom Italia (controllata di fatto da Generali) e vice presidente di Rcs (Corriere della Sera) controllata a sua volta al 14% da Mediobanca, senza contare le altre società finanziarie. Nel consiglio di gestione di Intesa siede anche l’amministratore delegato del Leone Giovanni Perissinotto, già nel cda di Pirelli Spa. Tra i costruttori spicca l’immobiliarista romano Francesco Gaetano Caltagirone, salito recentemente all’1,95% ma forte di un altro 1,58% nelle mani di Monte dei Paschi di Siena, di cui è vicepresidente e azionista al 3,9%. Al centro di progetti di espansione immobiliare in tutta Italia, Caltagirone è presidente dell’omonimo gruppo editoriale che edita Il Mattino e delle testate Il Messaggero e Il Gazzettino. Non meno importante il ruolo di Salvatore Ligresti, che attraverso Fondiaria-Sai controlla l’1% di Generali e il 4% di Mediobanca (dove siede nel “patto di sindacato”, ossia la cordata di società che controlla effettivamente la banca). Oltre alla poltrona nel cda Mediobanca, la famiglia Ligresti conta su un posto in Rcs, Unicredit e Pirelli. Segnaliamo il conflitto di interessi tra due compagnie (Fonsai è la prima assicurazione Danni del paese) e gli interessi comuni nel comparto immobiliare. Insieme a Generali, tra l’altro, il gruppo Ligresti è in prima linea nella riqualificazione dell’ex Fiera di Milano, attraverso Citylife, per oltre 2 miliardi di investimenti. Altri componenti del cda Generali siedono ai vertici di Benetton, De Agostini, Eni, Tod’s, Rcs, Veolia e di una serie di banche e finanziarie, tra cui Ubi Banca, Ubs, Santander. Molte di queste società le ritroviamo al piano superiore della catena di controllo, in quota Madiobanca, dove compaiono altri nomi eccellenti della finanza: Marco Tronchetti Provera, contemporaneamente vice presidente di Mediobanca e presidente di Pirelli, Dietr Rampl, anch’egli vice presidente di Mediobanca e presidente di Unicredit, Gilberto Benetton, presidente di Edizione Holding e di Autogrill, Renato Pagliaro, vice presidente di Rcs e nel cda di Telecom (l’elenco completo è nel box a p. 18).
Riassumendo: Generali è al centro di un fitto intreccio di relazioni con banche, assicurazioni e imprese industriali che impedisce una reale concorrenza. È un potere che si autoalimenta, e a rimetterci sono i risparmiatori, poiché la loro facoltà di scelta si riduce. Infatti i membri della stessa élite finanziaria esiteranno prima di farsi concorrenza e migliorare i propri prodotti. “La posizione dominante è di Generali, ma connessa alla galassia Mediobanca -conferma Claudio Cacciamani, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università di Parma-. Se a Generali aggiungiamo anche Fondiaria-Sai si ottiene un mercato assicurativo estremamente concentrato. Per questo sarebbe quanto mai opportuno un intervento per verificare i benefici della concentrazione per i clienti”.
Fiore all’occhiello della strategia del Gruppo è il comparto immobiliare, che fa capo a Generali Immobiliare. Dopo anni di cessioni, ora la compagnia torna a comparare e punta sui mercati più appetibili, grazie al calo dei prezzi dovuto alla crisi: Europa occidentale e orientale, Asia e Nord America. Stanno partendo quattro nuovi fondi in queste aree, che si aggiungeranno a un patrimonio immobiliare pari a 24,4 miliardi di euro. In Italia le opportunità verranno dai piani di edificazione e riqualificazione, in primis l’Expo, che stanno cambiando il volto delle grandi città. I riflettori dei fondi sono puntati sull’immenso patrimonio degli enti pubblici, come Inps e Inail, che avvieranno processi di dismissione.
Ma i profitti del Gruppo attingono anzitutto dall’attività assicurativa. In Italia una polizza su quattro è riconducibile al marchio Generali, per una raccolta premi di 69 miliardi di euro nel 2008. L’utile è sceso a 861 milioni, ma è già in forte crescita nei primi nove mesi di quest’anno. Le maggiori entrate vengono dal ramo Vita, che copre i due terzi della raccolta (47 miliardi) ed è più esposto ai capricci delle Borse. Analizzandone l’offerta tuttavia si scopre che buona parte del rischio finanziario viene scaricato sul cliente. Il 20% circa della raccolta infatti riguarda polizze di tipo “unit linked”, ovvero strumenti ad alto contenuto finanziario che versano i premi in fondi comuni di investimento. Sono assicurazioni solo di nome, ma molto redditizie per la compagnia, poiché il rischio è tutto a carico dell’assicurato. Chi le ha sottoscritte negli ultimi mesi è stato travolto dal crollo dei mercati. Nel frattempo, però, le compagnie avevano già intascato la loro parte. Infatti su 100 euro versati dall’assicurato, dai 5 ai 7 euro finiscono subito sui conti di assicuratori e intermediari, mentre sulla parte investita gravano commissioni di gestione ed altri balzelli. Falcidiati dalla crisi (anche Generali li sta riducendo) questi prodotti rappresentavano nel 2008 ancora il 34% dell’intero ramo. “Il loro successo è da attribuire all’abilità dei venditori di ingannare i clienti -afferma Beppe Scienza, docente di Metodi e modelli per la pianificazione finanziaria all’Università di Torino-. Nessuno che li conosca bene vi avrebbe messo o vi metterebbe un euro. Incorporano tutti i gravi pericoli e i difetti del risparmio gestito, perché i soldi degli assicurati vanno a finire in diverse forme di gestione (fondi comuni, sicav, gestioni separate e simili). Tali polizze sono vere prese in giro: a regola non è garantito a scadenza un capitale, bensì un numero di quote di un fondo o simile. Quote che possono aver perso nel frattempo anche il 90% o più del loro valore. Perciò sono gravissime le responsabilità del legislatore e degli organi di vigilanza”. Quanto ai prodotti Vita cosiddetti “tradizionali”, che coprono la parte più consistente della raccolta Generali, occorre distinguere tra polizze “caso morte” e le più diffuse polizze rivalutabili “caso vita”, che promettono un capitale a scadenza legato a un investimento finanziario (vedi box a p. 17). “Sulle assicurazioni per il ‘caso morte’ non c’è nulla da obiettare, -riprende Scienza-. Invece le polizze rivalutabili per il ‘caso vita’ sono scelte perdenti. Ne ho analizzate decine per anni e sostanzialmente sono sempre la stessa solfa. Nel mio libro (Il risparmio tradito, ed Cortina, ndr) mostro perché sono da evitare. Analogo discorso per i contratti di capitalizzazione. Non è vero nemmeno che si tratta di investimenti particolarmente sicuri: le vicende dell’americana Aig, salvata in extremis, conferma che chi vuole la sicurezza deve diffidare di qualsiasi compagnia di assicurazione”.
Diversa la situazione del ramo Danni, dove pesa soprattutto l’Rc Auto (42% dell’intero ramo Danni di Generali). Nonostante le lamentele, l’assicurazione obbligatoria sull’auto rappresenta un’entrata certa e una fonte di fidelizzazione del cliente. Per guadagnarci le assicurazioni scoraggiano in tutti i modi le fasce di clientela meno “virtuosa”: un neopatentato residente a Sud di Roma paga fino al doppio rispetto a un adulto milanese. Il ramo è in pareggio, ma nessuno intende rinunciarvi. “Il settore consente di raccogliere premi da investire -dice Cacciamani-. Poi il prodotto Rc consente di attrarre il cliente e di fertilizzare la relazione con altri prodotti maggiormente redditizi, come polizze Danni e Vita”.
Un’altra fonte di business è la presenza estera. Se l’80% del volume d’affari del Leone nasce in Europa (32% in Italia), la compagnia guarda sempre più a Est. Tra Europa orientale e Russia conta su un bacino di 9 milioni di clienti, colpiti da processi di privatizzazione che regalano alle assicurazioni interi comparti del sistema sanitario e previdenziale. Ma la vera scommessa è la Cina, dove Generali China Life è oggi la prima compagnia Vita a partecipazione straniera (in Cina le imprese estere operano solo in partnership con compagnie nazionali). Nel primo semestre di quest’anno il Gruppo ha più che raddoppiato la raccolta Vita sul suolo cinese, ma i margini di crescita sono incalcolabili. Il progressivo arretramento dello Stato sul fronte previdenziale sta lasciando spazi sconfinati ai privati, pronti a giocare le pensioni dei cinesi sull’altalena delle Borse mondiali. Basti pensare che la previdenza integrativa aziendale -il cosiddetto “secondo pilastro” del nuovo sistema cinese- riguarda circa 220 milioni di lavoratori, di cui solo il 5% versa contributi per una pensione privata. Guarda lontano Generali, e per questo a luglio ha messo in portafoglio il 30% di Goutai Amc, società cinese autorizzata a gestire ogni tipo di fondo pensionistico.
La responsabilità segreta
“A fine 2008 non risultavano in portafoglio investimenti non etici”. Così si legge sul sito istituzionale del Gruppo Generali alla voce “Sostenibilità”. Non ci credete?
Fa lo stesso, tanto non c’è modo di verificarlo. La società infatti dichiara di investire il proprio patrimonio secondo le linee guida del Fondo Pensione Governativo Norvegese, che selezione i titoli da acquistare in base a precisi criteri sociali e ambientali. Nella compagnia il controllo è affidato al Servizio controllo del rischio finanziario del corporate Centre, al quale viene inviata una relazione trimestrale dai vari Paesi. A questo punto abbiamo chiesto al Gruppo di poter visionare l’ultima relazione trimestrale. Risposta: si tratta di documenti riservati. Non contenti, abbiamo cercato tra gli investimenti dei singoli prodotti. Pur consapevoli che si trattava di strumenti esplicitamente esclusi dalle linee guida, eravamo fiduciosi che tanto impegno sul fronte della sostenibilità potesse avere qualche riflesso anche sugli altri investimenti. Ci sbagliavamo. Tra gli investimenti azionari del Fondo pensione aperto Previgen Valore (comparto Gencapital), solo per citare un esempio, spiccano aziende ben poco “sostenibili” del calibro di Nestlé, Unilever, Bayer, McDonald’s, Enel ed Exxon.
La vita è "rivalutabile"
L’offerta Vita di Generali è fatta al 90% da polizze di tipo “rivalutabile”: qualunque sia lo stato di salute del sottoscrittore, la compagnia promette un capitale o una rendita a una data scadenza. È un prodotti finanziario, che ha poco a che vedere con la logica assicurativa. Per rivalutare il capitale, le compagnie investono in un fondo detto “gestione separata”, che acquista titoli sui mercati finanziari e borsistici, garantendo un rendimento minimo. “Conviene però comprare direttamente i titoli sottostanti -spiega Marco Vinciguerra, della società di consulenza Tokos-, evitando di perdere il controllo sui propri risparmi. Se l’obiettivo è tutelare moglie o figli in caso di decesso, basta una normale assicurazione ‘caso morte’”. Per quelle rivalutabili, una percentuale del premio va al venditore, un’altra alla compagnia e all’assicurato viene girato circa l’80% del rendimento. Il successo di queste polizze è dovuto a una consistente agevolazione fiscale in vigore fino al 31 dicembre 2000: l’assicurato poteva detrarre dalle imposte il 19% del premio fino 2,5 milioni di vecchie lire. Un vantaggio che persiste per i contratti sottoscritti prima del 2001.
Dall’Est ai paradisi offshore
Generali corre ovunque senta odore di privatizzazioni, dall’America Latina all’India al Medio Oriente.
Nell’Est europeo, inoltre, attraverso i fondi di private equity della ceca Ppf Partners (27,5% Generali), punta a lucrare sul ricco settore energetico e dei media.
E non poteva sfuggire al Gruppo nemmeno il bottino nascosto nelle piazze offshore. Se è vero che la “trasparenza” è “un must nello scambio di opinioni ed informazioni” (come si legge sul sito di Generali), allora l’azienda dovrebbe spiegare a cosa servono filiali e controllate a Guernsey, Liechtenstein, Svizzera, Hong Kong, Panama e Lussemburgo, dove migliaia di clienti anonimi necessitano di polizze vita, fondi comuni e consulenze per far fruttare i soldi nascosti al fisco.
Per inciso Banca Generali, attraverso la controllata svizzera Banca Bsi, è oggi in prima linea anche nel rimpatrio dei capitali esportati illegalmente all’estero, grazie alla legge sullo “scudo fiscale”.