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La prima condanna – Ae 84

Marina Spaccini, medico pediatra con alle spalle anni di impegno in Africa con il Cuamm, a Genova venne presa a manganellate. Ora il tribunale impone allo Stato di risarcirle i danni morali e materiali. Una sentenza importante Marina Spaccini alla…

Tratto da Altreconomia 84 — Giugno 2007

Marina Spaccini, medico pediatra con alle spalle anni di impegno in Africa con il Cuamm, a Genova venne presa a manganellate. Ora il tribunale impone allo Stato di risarcirle i danni morali e materiali. Una sentenza importante

Marina Spaccini alla fine ha avuto ragione. Pestata a Genova il 20 luglio 2001, vicino a piazza Manin, Marina -medico pediatra a Trieste, madre di sei figli e attivista di Lilliput- resterà nella storia del G8 per una foto (finita sulla copertina di Diario), che la ritrae mentre assiste un giovane svenuto col volto coperto di sangue, e per la recente sentenza del tribunale civile che ha imposto al ministero dell’Interno

di risarcirle i danni morali e materiali causati dall’aggressione della polizia.

L’entità del risarcimento è in fondo poca cosa -circa 5000 euro- ma il giudice è stato molto duro. Ha scritto che “non si è trattato né di un’iniziativa isolata, né di un fatale inconveniente”.

Marina, è una sentenza importante. Hai raggiunto il tuo obiettivo?

“È una sentenza bellissima. Il giudice ha scritto che l’integrità personale è un bene supremo, che è stata un’aggressione sistematica di manifestanti pacifici e non travisati, come sosteneva invece la polizia, e che non ci fu alcuna provocazione da parte nostra.

È importante che tutto questo sia stato messo nero su bianco. Mi viene da pensare all’archiviazione dell’inchiesta sull’uccisione di Carlo Giuliani. In quel caso il re era davvero nudo, con quell’idea del sasso che devia il proiettile e tutto il resto. Una cosa ridicola, grottesca, e invece quello è stato scritto”.

Che cosa può cambiare la sentenza?

“Mi piacerebbe che i politici dicessero finalmente qualcosa, ma sono disillusa. Se anche i giornali hanno ignorato la sentenza, è perché manca la volontà politica. Si preferisce mettere tutto a tacere. Fra i genitori dei miei bambini ci sono dei poliziotti. Uno di loro, quando ha saputo della sentenza, mi ha telefonato per scusarsi a nome della polizia: ‘Con lei non dovevano farlo’, mi ha detto. Ma quando ho cercato di dirgli che le forze dell’ordine hanno violato i diritti di tutti, lui già non mi seguiva più. E invece abbiamo bisogno del riconoscimento totale di quanto avvenuto, altrimenti com’è possibile fidarsi ancora della polizia?”.

Che cosa ti ha insegnato questa vicenda?

“Mi ha insegnato a fidarmi di meno. Quando mi hanno colpito con il manganello, mi è caduto in testa lo Stato. Ma il peggio è venuto dopo, quando mi sono ritrovata di fronte al fatto di non essere creduta. Vedi che tutti si preoccupano di difendere le istituzioni senza andare al fondo delle cose, e non si rendono conto che così finiscono per affossarle”.

Che cosa ti aveva spinto a Genova?

“Ero a Genova dopo tanti anni di impegno in Africa, con il Cuamm.

Io e mio marito, che è chirurgo, abbiamo lavorato molto in Kenya. Genova ci aveva riempito di speranza. Prima ci sentivamo come un’élite che aveva compreso certe cose e lottava contro la povertà, che è la prima causa di morte infantile. A Genova la nostra proposta si univa alla protesta, c’era gente e tanti giovani pieni di ideali. Poteva essere il momento, anche per noi, di uscire davvero allo scoperto. Si è fatto in modo di distruggere questo messaggio”.

Che cosa ti capitò in piazza Manin?

“Ci avevano avvertiti che giravano quelli del black bloc e così avevamo formato una sorta di barriera umana all’imbocco di via Assarotti. A un certo punto sono arrivati dei ragazzi vestiti di nero.

Io non ero in prima fila e ne ho visto solo uno. È entrato in mezzo a noi,

ma quando si è reso conto che nessuno dei suoi lo seguiva è tornato indietro.

Poi sono tutti andati via”.

E la polizia dov’era?

“Era di fronte a noi, schierata. Non ha inseguito quei ragazzi. Mi dicevo: stai tranquilla, sono qui per proteggerci, ma erano così minacciosi che non credevo a quel che mi dicevo. Infatti hanno cominciato a tirare lacrimogeni, poi i picchiatori hanno iniziato a colpire”.

Tu quando sei stata aggredita?

“Ero fuggita, con tanti altri, verso corso Armellini. Ci siamo trovati chiusi, con un muro alle spalle. Mi hanno colpito alla testa. Avevo un taglio di otto centimetri”.

Hai avuto paura?

“Ho avuto paura per una ragazzina che perdeva sangue dalla bocca e per il ragazzo francese della foto di Diario: era svenuto, aveva la guancia squarciata e una grossa ferita sulla testa, che lasciava scoperta la scatola cranica.

Ero ferita ma non mi sono mossa finchè non è arrivata l’ambulanza che l’ha portato via. Ma l’angoscia più grande è stata per chi era con me. Ero a Genova con una figlia e altri due ragazzi, e per ore non ho saputo niente di loro.

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