Ambiente / Intervista
La pandemia del bostrico e la crisi dell’abete rosso
L’insetto è da sempre presente sulle Alpi. Se oggi fa strage di conifere è perché gli alberi travolti da Vaia nel 2018 sono malandati e subiscono gli effetti dei cambiamenti climatici. Nel libro “Sottocorteccia” l’invito a ripensare il bosco futuro
La vicenda del bostrico e della “strage” dell’abete rosso sulle Alpi va raccontata dalla fine: “La guerra è persa”, scrivono Pietro Lacasella e Luigi Torreggiani nel libro “Sottocorteccia”. Riportano parole di Massimo Faccoli, ordinario di Entomologia forestale presso l’Università degli Studi di Padova, sull’Ips typographus (nome scientifico del piccolo coleottero).
La guerra è persa non segna una volontà di resa, ma è l’invito a leggere la complessità di una crisi che segnerà in modo permanente i boschi italiani, sommando gli effetti della tempesta Vaia, che ha schiantato a terra 40mila ettari nell’ottobre del 2018, a quelli del bostrico, che ad oggi ha seccato abeti rossi su un’area di 34mila ettari.
La conifera che subisce l’attacco del coleottero -da sempre presente nei boschi alpini, con funzioni importanti da un punto di vista ecologico- non gode di buona salute: il bostrico corre infatti tra gli abeti morti o indeboliti. Una possibile soluzione è quindi quella di tornare a gestire il bosco, per aumentare la capacità di adattarsi ai cambiamenti climatici. È a questo che guarda il viaggio intrapreso da Lacasella, antropologo, e Torreggiani, dottore forestale: un dialogo tra i due autori permette di comprendere a fondo anche i tanti luoghi comuni che spesso si leggono sui giornali rispetto al “coleottero killer”.
Pietro, Luigi, che cosa insegna la vicenda del bostrico?
PL Questo piccolo coleottero, grande come un chicco di riso, è una metafora del nostro tempo: ci invita a posare uno sguardo consapevole sul paesaggio montano. Infatti le dinamiche che lo caratterizzano dal punto di vista estetico sono importanti anche quando la “cartolina” che cerchiamo nelle nostre foto è sciupata, perché aiuta a comprendere presente e passato, piuttosto che una sorta di oleografia, la fotografia di un attimo, che esteticamente rispecchia i canoni sociali che il turista o l’osservatore vuole appagare ma non ha un taglio educativo così profondo.
LT La crisi è profonda e non casuale: Vaia è stata vissuta come una “botta improvvisa”, un evento estremo, ma il bostrico si stava espandendo, in tutta Europa e in tutto il mondo, da prima della tempesta.
Le fotografie pubblicate in queste pagine sono tratte dal servizio “La pandemia del bostrico” a cura di Michele Lapini. “In condizioni naturali l’insetto svolge un compito utile, ecologico -fanno notare Lacasellae Torreggiani-: attacca gli abeti deboli per lasciare spazio alla rinnovazione del bosco e legno morto utile a funghi, insetti e uccelli. Il problema è che oggi ha trovato un pranzo nuziale a costo zero e non può che abbuffarsi”
È come se il bostrico mettesse a nudo ciò che a lungo è rimasto nascosto.
LT Vaia e il bostrico hanno colpito alcune tra le zone d’Italia in cui il bosco è più gestito. I forestali delle Alpi dicono che “sono state le martellate di Dio”, richiamando l’operazione con cui il tecnico sceglie le piante per fare i diradamenti. Di fronte all’evidenza che tutto è legato a fattori umani, dalla gestione dei boschi ai cambiamenti climatici, siamo portati a pensare che la miglior soluzione sarebbe fare un passo indietro, lasciare che la natura faccia il suo corso, ma è importante sottolineare che questo genererebbe una miriade di problemi: i boschi che oggi stanno collassando hanno tempi molti lunghi di rinascita e se dobbiamo prepararci per frenare l’espansione del bostrico possiamo farlo solo con la silvicoltura, che è un acceleratore delle dinamiche naturali, per portare i boschi verso condizioni di maggior resilienza. Non possiamo “permetterci” il lunghissimo processo naturale che passa per il crollo, la degradazione degli alberi ammassati al suolo, la ripartenza, perché lì sotto ci sono case e infrastrutture, perché la montagna la vogliamo vivere anche nel tempo libero. Diventa fondamentale una nuova forma di gestione, più intensa e capillare.
PL È una metafora della nostra società: racconta che ciò che un tempo funzionava oggi rischia di non farlo più.
Uno dei problemi degli abeti rossi, in questo momento storico, è che stanno tutti insieme in boschi “coetanei”.
LT Siamo di fronte a boschi monospecifici e questo fa sì che in assenza di un intervento essi rinasceranno allo stesso modo. Ecco perché ha senso che l’uomo entri nel bosco a fare determinati lavori. Un problema è che certi lavori non sono stati fatti perché costano, trattandosi di mestieri ad alta intensità di lavoro. Quindi il tema di fondo è che serve un altro pensiero politico rispetto alle foreste: non possiamo pensare che Stato e Regioni non investano nella gestione del 40% del territorio italiano. Serve un accompagnamento alla gestione dei boschi del futuro e il privato non potrà permettersi questo tipo di interventi. Una possibile soluzione è quella relativa ai servizi ecosistemici: l’economia forestale è stata in piedi grazie al legno, che è solo una delle tante risorse economiche del bosco; ogni volta che apriamo il rubinetto, non immaginiamo di dover riconoscere il valore di chi tutela le fonti; ogni volta che percorriamo un sentiero, non ci rendiamo conto che la manutenzione non ha costo zero. Non riusciamo a “leggere” il valore economico di questi servizi, ma questo potrebbe aiutare ad avere boschi più resilienti, c’è bisogno di più investimenti sulle foreste e sulla montagna.
L’idea di un bosco gestito e coltivato è spesso attaccata in modo ideologico, come se rappresentasse un attacco a un ipotetico “polmone verde”, che cancella il paesaggio che chi vive in città vuol vedere in montagna.
LT Se vogliamo far vivere le persone in montagna, con meno impatto, con una riduzione del consumo di suolo, diminuendo l’impatto degli impianti di risalita, che cosa rimane loro? L’agricoltura e la gestione del bosco. Ciò che in Italia e in Europa si è sempre fatto.
PL C’è un elemento che vogliamo far emergere nel libro, relativo alle trasformazioni nello spazio e l’influenza emotiva legata a questo cambiamento repentino: è una dinamica antropologica importante, ma a cui si presta poca attenzione quando succedono catastrofi di questo tipo. Si pensa subito alle conseguenze economiche, ecosistemiche, ma ci sono anche quelle emotive, che influenzano la qualità della vita di chi abita il territorio. Una riflessione che nel libro torna, dall’incontro con un cacciatore alle donne di cui riportiamo le lacrime. Anche il mio vicino di casa sull’Altopiano di Asiago mi ha detto “i boschi non li riconosco più”. Tutti, però, sono convinti che il bosco tornerà. Sono dispiaciuti, perché forse non lo vedranno, il bosco nuovo, ma c’è questa speranza positiva perché è come se ci fosse un grande foglio bianco da riempire con nuove forme di gestione più vicine alle caratteristiche climatiche e sociali del nostro tempo. Questa è l’opportunità da cogliere, a partire da un elemento che ha portato squilibri, prima Vaia e poi il bostrico.
Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano” è uscito per People nell’aprile del 2024 (304 pp., 16 euro)
Nel libro raccontate di un interessante esperimento in corso proprio sull’Altopiano di Asiago, per creare il bosco futuro. Che cosa sta accadendo?
LT A forte Interrotto alcuni soggetti, tra cui l’Università di Padova e Fsc, stanno ripensando i sesti d’impianti e anche l’idea di boschi monospecifici, modelli che da tantissimi anni le scienze forestali stanno superando. Ci sono diversi gruppi di alberi, e tra un gruppo e l’altro c’è anche lo spazio dove la sperimentazione la farà la natura. Potremmo anche scoprire, così, che il bosco migliore è quello che emerge da lì. Il punto di partenza è che i boschi monospecifico sono ecosistemi meno naturali e perciò più a rischio. I boschi naturali, come le foreste primarie che resistono in Bosnia e Montenegro o in zone remote dei Balcani, sono misti e hanno una struttura irregolare. Il bosco ordinato con alberi tutti della stessa altezza è un’invenzione antropica ed è frutto di una visione antropocentrica.
PL Il mio è un approccio meno tecnico e più etico-filosofico: la presunta purezza, che anche una certa politica sbandiera, è sempre stata un fattore di debolezza nella storia umana e nella storia economica. Cambiamo punto di osservazione e guardiamo allo sci, un modello monoculturale apparentemente vincente in molte valli: come ha dimostrato in modo esemplare il periodo del Covid-19, la chiusura di quelle attività ha portato intere valli di disoccupati. Oggi che il cambiamento climatico mette in crisi quell’unica attività, che può essere l’abete rosso ma anche lo sci, un’intera comunità che dipende da quella attività subisce danni economici, disagio sociale. L’assenza di pluralità rischia di acuire il problema dello spopolamento.
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