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Opinioni

La malattia dimenticata di Mercy

In Asia e in Africa, due milioni di donne convivono con una fistola ostetrica. È una patologia operabile

Tratto da Altreconomia 182 — Maggio 2016

C’era una volta Mercy. Aveva quindici anni quando la diedero in sposa a un uomo. Non aveva ancora avuto le prime mestruazioni. Cambiò villaggio e la casa del marito divenne la sua. Fu lì che divenne donna e, poco dopo, era pronta a diventare mamma. Almeno questo è quello che lei desiderava e quello che tutti attorno a lei, dal marito alla comunità, si aspettavano. La gravidanza arrivò, si avvicinò al termine e finalmente iniziò il travaglio.

Forse il suo corpo era ancora giovane, forse il bimbo che portava in grembo troppo grosso o forse, semplicemente, nessuno capì che qualcosa, in quel travaglio, stava andando male. Non c’era un’ostetrica in quel villaggio, tanto meno un ginecologo. Solo una donna che aveva partorito molte volte e che oggi assisteva le più giovani, con consigli basati sulla sua esperienza e con misture cotte con le erbe che la natura del luogo offriva. Durò tre giorni il travaglio. Il bimbo alla fine nacque, morto. Mercy sopravvisse: la malaria, la malnutrizione, la fatica del travaglio, l’emorragia e le infezioni puerperali uccidevano ancora in quel Paese e molte donne morivano di parto. Mercy, invece, sopravvisse. Fortunata? Dipende. A pochi giorni dal parto, si accorse che dalla sua vagina usciva urina. L’urina colava in continuazione. Mercy non era in grado di trattenerla e di decidere quando andare in bagno. La pelle si macerava, le lacerazioni del parto non si rimarginavano. Mercy, soprattutto, puzzava. Aveva 16 anni, era diventata donna, ma la sua vita di donna era già distrutta: il marito la ripudiò e Mercy ritornò al suo villaggio, dalla sua famiglia di origine, con la sua fistola vescico-vaginale.

Già, le fistole vescico-vaginali. Chiamate anche fistole ostetriche, sono una complicanza del parto. Se il parto non progredisce e il bimbo rimane “incarcerato” per lungo tempo dentro la mamma, la sua testolina preme sui tessuti che dividono la vescica dalla vagina e crea un buco che mette in comunicazione i due canali. L’urina, come fanno tutti i liquidi (e come spesso fanno anche gli umani), percorre la strada più comoda e anziché uscire dall’uretra, stretta e chiusa, esce dalla vagina, più larga e senza porte. Una volta che impara la strada, non la cambia più. Nessuno, però, vuole vivere con una donna che perde urina dalla vagina. Così, la complicanza di un parto che è legata alla mancanza di un’idonea assistenza ostetrica, diventa uno stigma. 

Mercy però non si arrende: scopre che in un ospedale lontano c’è un’organizzazione che si occupa delle donne come lei. È coraggiosa, ci si reca. Viene accolta e inserita in una lista di casi complessi di cui si occupa un chirurgo belga che da anni gira il mondo per ridare una vita alle donne con fistole ostetriche. Viene operata, quattro ore di intervento. Ha fatto tanta fisioterapia, ma è tornata a sentirsi donna. Malattie sconosciute? No, malattie dimenticate. È negli Stati Uniti che si sono eseguiti, per la prima volta con successo, gli interventi di riparazione delle fistole.
Le pazienti erano donne immigrate dal Nord Europa. Era la fine del diciannovesimo secolo. Oggi, in Asia e in Africa sub-sahariana, ci sono due milioni di persone che vivono con una fistola ostetrica non trattata. Mercy vive in Nigeria. È fortunata? Direi di sì. È nata nel ‘95 e l’abbiamo operata lo scorso anno. Per la fistola? No, quella era stata riparata -con successo- nel 2012. Lo scorso anno ha partorito, con un taglio cesareo, una splendida bimba di tre chili.

* Luigi Montagnini è un medico anestesista rianimatore. Dopo aver vissuto a Parigi e Londra, oggi è a Genova, dove lavoro presso l’Istituto Gaslini. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere 

 

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