Interni
La logica del cibo
Il 60% dell’agroalimentare che finisce sulle nostre tavole passa per 24 mercati generali: viaggio
in un sistema in profonda trasformazione —
Quando raggiungo il Centro agroalimentare di Torino (Caat) sono le 7.30. La zona è quella dell’interporto, nel comune di Grugliasco. Nonostante abbia albeggiato da poco, l’attività dell’unico grande Centro ortofrutticolo piemontese è alle fasi conclusive. Ogni giorno, dalle 22, sui 440mila metri quadrati a disposizione del Caat si “movimentano” 2.300 tonnellate di frutta e verdura. “È prodotto fresco -spiega Vincenzo Nettis, a capo dell’ufficio logistica di Caat-, portato qui fino alle 3.30”. Dopodiché c’è il mercato. Produttori, facchini, fornitori, grossisti, spedizionieri, clienti. Un rituale che si ripete per 260 giorni all’anno -mediamente- come in tutto il Paese. Per i soli prodotti ortofrutticoli, i mercati generali –Milano, Bergamo, Brescia, Udine, Bolzano, Bassano del Grappa, Treviso, Verona, Padova, Torino, Genova, Parma, Bologna, Forlì, Rimini, Firenze, Foligno (Pg), Roma, Fondi, Napoli, Catanzaro, Catania, Pescara, Vittoria (Rg)– rappresentano lo snodo attraverso cui transitano poco meno di 11,5 milioni di tonnellate di merce ogni anno (a Torino tra le 500 e le 600mila), ovvero il 60% del prodotto che finisce sulle tavole italiane. Non è un meccanismo perfetto, anzi. Le cronache trattano (giustamente) dei mercati all’ingrosso quando i protagonisti sono i diritti violati degli operatori della logistica o le dinamiche criminali e mafiose di parte della filiera (Rosarno).
La “portineria” del Caat è una plancia che governa 75mila accessi al mese. Non è casuale che mi venga mostrata l’efficienza del controllo, dato che a marzo dello scorso anno La Stampa ha documentato le trasferte notturne di decine di migranti senza documenti, pronti a scavalcare i cancelli e lavorare in nero per 50 o 60 euro a notte. Dopo pochi minuti con Nettis ci raggiunge Massimo Busi, direttore generale del mercato. Il secondo passo è quindi la visita al polo ortofrutticolo vero e proprio. Il padiglione è lungo 750 metri e gli operatori presenti sono 87. È un enorme corridoio illuminato a giorno, dove ciascuno dei “venditori” garantisce la più importante voce dei circa 8 milioni di euro di ricavi (la proiezione per il 2013) del Caat, che corrisponde all’affitto del proprio spazio. È tra i più cari d’Italia: 120/130 euro al metro quadrato all’anno. Qui, nella parte più rilevante dei 170mila metri quadrati di area coperta, la “Società consortile Centro agroalimentare Torino” è tenuta a esercitare un servizio di pubblica utilità. Lo impone la natura societaria: sorto grazie alle risorse stanziate dalla legge 41 del 1986, che prevedeva un sistema di agevolazioni finanziarie a favore delle società consortili con partecipazione maggioritaria di capitale pubblico costituite per la realizzazione di mercati agroalimentari all’ingrosso di interesse nazionale, regionale e provinciale, il Catt è pubblico al 96,7%, con il Comune di Torino al 91,8% -48 milioni di euro su 52,6 milioni di capitale sociale-. Tra i privati, gli istituti di credito Unicredit e Dexia Crediop detengono il 2,6%. Su di sé, il Caat concentra la proprietà dei terreni, quella degli immobili e la gestione dell’intera struttura.
Busi, il direttore, fa strada tra i muletti lungo il corridoio centrale dell’ortomercato. “Le cooperative di facchinaggio, qui, sono 40 -racconta Busi- per 1.200 mezzi e 800 addetti”. Stando alle cifre scremate da una fetta di irregolarità, si comprende il traffico continuo che caratterizza un lungo e congestionato tunnel come questo.
A metà strada tagliamo a sinistra, attraversando un collegamento riparato da una tettoia che ci porta alla grande piattaforma di smistamento logistico della merce scaricata e caricata da camion, tir e furgoni -800 ogni giorno-. La logica della valorizzazione delle produzioni locali non è di casa e Busi lo riconosce senza imbarazzo: “A chi ci dice ‘sostenete il chilometro zero’ ricordo che questo impone rinunce che per strutture come queste risultano fuori portata”.
L’unica categoria dove la prossimità produttiva è “rilevante”, infatti, è quella della frutta fresca: un terzo circa delle 152mila tonnellate complessive. Gli ortaggi non superano un terzo (27%), come i legumi (23%).“Oltre la metà del prodotto venduto al Caat, 510mila tonnellate all’anno, per un volume d’affari aggregato di circa 600 milioni di euro, è fatta di ortaggi, seguiti da frutta fresca, agrumi e frutta secca”, continua Busi, mentre ricostruisce a mente l’elenco dei punti di destinazione dei prodotti. Su tutti, ambulanti e negozi al dettaglio rappresentano ben oltre il 40%. “Ormai è tardi -spiega- ma qui, ogni notte, su 100 tonnellate che escono dal centro agro-alimentare 35 raggiungono i 46 mercati rionali dell’orto-frutta della città”. La grande distribuzione organizzata acquista direttamente per un valore che sta al di sotto del 15%. Il resto è suddiviso tra grossisti interni al mercato, quelli della provincia e quelle società che operano indirettamente per conto della grande distribuzione. L’estero -che per il Caat significa la Francia- vale “solo” l’8/9% dell’intero volume di merce venduta.
Fattore difficilmente paragonabile ai flussi di destinazione di un altro grande centro agroalimentare italiano, il mercato di Verona, che come prima voce -il 50% delle 400mila tonnellate di merce movimentate ogni anno- ha proprio l’estero: Germania, Austria, ma anche Romania. Il polo gestito dalla società a maggioranza pubblica Veronamercato spa, costituita nel 1989 (Comune di Verona e Camera di commercio ne detengono l’85%) si affaccia su uno svincolo della A4 e sul collegamento alla via che porta verso il Brennero. A cinquecento metri, poi, ci sono l’aeroporto (Villafranca) e lo scalo ferroviario. È qui che di prima mattina incontro Paolo Merci, direttore generale della struttura che negli ultimi sei anni ha visto crescere i propri ricavi del 6%, da 5,8 a 6,3 milioni di euro (dato 2012). Quando percorriamo insieme la galleria del centro -850 metri di lunghezza- sono le 9.30. Il mercato è ordinatamente tornato a prepararsi per la ripresa serale. Il punto di partenza della visita è la bacheca del listino prezzi giornaliero. “Ciascun prodotto è catalogato per natura, origine, confezionamento, prezzo minimo, massimo e prevalente e unità di misura”, prosegue il direttore. Clienti e produttori si rifanno a questo elenco. “Ognuno dei 67 operatori in affitto può contare su tre tipologie di stand e relativi canoni -spiega Merci, mentre fa l’elenco degli importi- da 329 a 770 metri quadrati, per un affitto annuale che va da 25mila a 58mila euro”. Non è secondario, perché affitti e ingressi sono i ricavi di Veronamercato, che genera un reddito aggregato di 400 milioni di euro.
Il mercato di Verona, però, con la città dialoga poco. Se dal centro torinese il 40% di quel che esce dal casello è diretto al centro urbano -soprattutto verso i mercati rionali-, nel caso veneto questa cifra è al di sotto del 2%. Dinamica fotografata anche dagli ingressi annui dei privati cittadini censiti agli ingressi: 12mila, “di fatto non rilevabili” secondo Merci, contrariamente al 35% di acquisti garantiti da cinque sigle della grande distribuzione organizzata: da Migros al Gruppo Alimentare Rossetto, da Martinelli a Tosano fino a Brendolan (Selex). È un rapporto “tranquillo” quello che la Gdo intrattiene con il centro agroalimentare di Verona, secondo chi lo dirige. Lo squilibrato scenario tra grande distribuzione organizzata, centrali di acquisto, produttori e distributori, tracciato nell’estate 2013 dall’Antitrust e raccontato su Altreconomia 153 appare lontano. Eppure, il 4 dicembre 2013 la stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato ha avviato un’istruttoria sulla più importante centrale d’acquisto italiana, Centrale italiana, che detiene il 23% della quota di mercato. Funzione di Centrale italiana è la negoziazione collettiva al risparmio con i fornitori per conto dei propri affiliati; i principali sono Coop Italia (69%), il Consorzio Despar Servizi (25%) e Il Gigante (5%). Il rischio ipotizzato dall’Autorità è che, data la concentrazione e l’influenza, la trattativa tra centrale e primo anello della filiera veda soccombere i produttori -condizionati a prezzi di vendita “sganciati dall’effettivo vantaggio derivato”- e rafforzarsi sempre più l’esercizio del “buyer power” da parte delle catene distributive. A danno quindi anche dello snodo rappresentato dai mercati generali, chiamati a farsi interpreti di un pubblico servizio.
A Bologna (vedi a p. 41), ad esempio, anche questo fattore ha portato alla profonda rivisitazione del Centro agroalimentare Caab. Un cambiamento che è in atto anche a Milano, dove insiste il secondo maggior mercato all’ingrosso per volumi ortofrutticoli d’Italia (1 milione di tonnellate). Per dimensioni è secondo solo a Roma (1,45 milioni di metri quadrati contro 678mila, di cui 470mila a ortomercato). Dal febbraio 2012, il Comune di Milano -che detiene il 99,99% delle azioni della Società per l’impianto e l’esercizio dei mercati annonari all’ingrosso di Milano (So.Ge.Mi) nonché la proprietà delle aree- ha avviato un percorso di ristrutturazione del centro di via Lombroso (a Sud-est di Milano, a due passi da viale Forlanini e dalla Tangenziale Est), incaricando un “gruppo di esperti” di predisporee un piano di rilancio.
Rilancio considerato necessario in una città che tra poco più di un anno ospiterà l’Expo in tema di alimentazione, ma non potrà contare sul nuovo mercato (il termine dei lavori è fissato al 2017). “Obsolescenza delle strutture”, “mancanza da parte dell’azionista di investimenti” e una “regolamentazione superpubblicistica” hanno portato, secondo il gruppo di lavoro nella relazione finale del 27 giugno 2012, “ad un indebolimento della funzione dei magazzini generali e degli operatori attivi negli stessi”. Per questo, stando all’ultima e più aggiornata proposta sul tavolo dell’assessorato al Commercio del Comune di Milano, l’obiettivo è quello di razionalizzare la superficie sulla quale poggia oggi l’ortomercato: da 470mila a 250mila metri quadrati, mantenendo intatto il numero di operatori presenti (140). Lo strumento individuato dai saggi è quello di un fondo immobiliare chiuso, istituito e gestito da una società di gestione del risparmio (Sgr) selezionata dopo una gara pubblica. Il Comune dovrebbe conferire il diritto di superficie del patrimonio immobiliare (valutato inizialmente in 40 milioni di euro). Secondo le stime prudenziali elaborate dal pool incaricato dal Comune la remunerazione annua del Fondo dovrebbe raggiungere i 13,8 milioni di euro. Ma è intorno alla società di gestione che si discute, alla luce del fatto che il testo unico delle leggi regionali lombarde in tema di commercio e fiere specifica che “la gestione dei mercati non può perseguire fini di lucro, i canoni e le tariffe […] sono fissati in modo che i proventi della gestione non siano superiori alle spese necessarie al funzionamento del mercato”. Il che difficilmente potrebbe “sollecitare la partecipazione di privati”, ha segnalato l’advisor finanziario e legale individuato dal Comune di Milano, che ha proposto perciò la riforma del disposto regionale. Innovazione legislativa a parte, i nuovi mercati generali di Milano non potranno contare su un raccordo ferroviario interno dedicato: il progetto elaborato da Rete ferroviaria italiana nel 2005 è stato stralciato dai consulenti finanziari. Sarebbe viziato da “modalità di intervento particolarmente onerose”. —