La holding dei fratelli camorristi
Immobili, supermercati, noccioleti e una società di affissioni: diversificando il portafoglio, Pasquale e Carmine Russo, arrestati a novembre in Irpinia, avevano accumulato un capitale di 300 milioni di euro Pasquale e Carmine Russo, arrestati il primo novembre nelle campagne avellinesi,…
Immobili, supermercati, noccioleti e una società di affissioni: diversificando il portafoglio, Pasquale e Carmine Russo, arrestati a novembre in Irpinia, avevano accumulato un capitale di 300 milioni di euro
Pasquale e Carmine Russo, arrestati il primo novembre nelle campagne avellinesi, vivevano ospiti nel casolare di un panettiere. Non avevano il cellulare, e se serviva loro un’automobile erano costretti a farsela prestare. Vita grama da latitanti di lungo corso, un contrappasso per i capi di un clan di camorra a cui è stato sequestrato un patrimonio da trecento milioni di euro.
Avete letto bene, non è un refuso, né una cifra pompata dai media, che anzi non le hanno prestato particolare attenzione. Trecento milioni di euro. È il deficit sanitario della Regione Calabria dal 2006 a oggi. È quanto investirà in infrastrutture e viabilità la Provincia di Firenze nei prossimi tre anni. È la somma che il governo ha stanziato per la ricostruzione dell’Aquila. È una montagna di soldi. Nel bilancio del clan Russo, dominante nell’agro nolano in provincia di Napoli, gran parte delle entrate provenivano dalle estorsioni alle importanti realtà economiche della zona: l’interporto, il megacentro dell’ingrosso Cis, il centro commerciale “Vulcano buono” -un Vesuvio di cemento e metallo progettato da Renzo Piano- e la miriade di aziende del famoso distretto napoletano del tessile.
Il capitale accumulato è stato reinvestito in una holding familiare svelata dal provvedimento di sequestro scattato il 7 marzo 2008 al termine dell’inchiesta condotta dai pm della Procura di Napoli Giuseppe Borrelli e Simona Di Monte, sfociata in un processo attualmente in corso. Secondo l’accusa, i soldi delle estorsioni erano reimpiegati soprattutto nell’edilizia e nella gestione di supermercati, ma anche nel commercio di nocciole attraverso una società che operava a livello nazionale, la Agrinola.
Un sequestro più recente, del luglio di quest’anno, ha svelato l’interesse dei Russo per il settore pubblicità, in particolare affissioni e volantinaggio.
La loro Mediafabric fatturava 93mila euro nel 2005, 496mila nel 2006, 881mila nel 2007. Tutto questo mentre la ditta diretta concorrente ha presentato un andamento esattamente opposto: 494mila euro nel 2005, 198mila nel 2006, chiusura della baracca nel 2007. Il brillante exploit di Mediafabric, secondo i carabinieri, è stato ottenuto con minacce, danneggiamenti, incendio della cartellonistica altrui. Per togliere la concessione alla società del clan, il Comune di Nola ha preferito però attendere l’intervento della magistratura. Come da tradizione, buona parte del riciclaggio prendeva la via del mattone. Il provvedimento di sequestro elenca 22 beni immobili, soprattutto appartamenti, e 27 terreni, compresi diversi noccioleti. La Russo Costruzioni srl
-non sempre la famiglia si preoccupava di intestare beni e società a prestanome- non aveva né dipendenti né mezzi, ma era una macchina di profitti. Comprava terreni e li vendeva ad altre imprese edili in cambio di una parte degli appartamenti che sarebbero stati costruiti.
Il vero business stava nel fatto che fette di territorio destinate a uso agricolo diventavano edificabili “attraverso ‘provvidenziali’ interventi da parte dell’Ente locale competente”, rimarcano con ironia gli inquirenti.
Attraverso la Russo General Food, il clan gestiva tre supermercati di marchi noti, come Decò e Di Meglio. Ogni sabato, giornata di punta della spesa, ciascun punto vendita fruttava un incasso tra i dieci e i ventimila euro. Non c’era distinzione tra business legale e illegale: parlando di un ispettore della Di Meglio che lamenta il mancato rispetto degli accordi commerciali, i boss minacciano di “tagliargli la testa”, come farebbero “i casalesi”. Soldi sporchi e soldi puliti confluivano nelle tasche dei membri della famiglia e dei loro complici, che conducevano una vista sfarzosa, tra auto di lusso e alberghi a cinque stelle, pur dichiarando redditi da poche migliaia di euro. “La complicità del territorio era totale”, confida un investigatore. Dalle banche, che si prestavano a qualunque operazione “fuori conto” e chiudevano gli occhi su evidenti casi di riciclaggio, ai comuni cittadini, che ben sapevano da chi andavano a fare la spesa o a comprare un appartamento. Ai politici, che alle aziende dei Russo firmavano contratti e finanziamenti pubblici. “Questa non è convivenza, è connivenza”.
Beni confiscati in vendita
L’idea di vendere una parte degli ingenti beni confiscati ai mafiosi ha scatenato un’ampia protesta, guidata da Libera (libera.it), l’associazione che nel 1996 promosse la legge sul riutilizzo a fini sociali di quei beni. Tutto è cominciato con un emendamento alla Finanziaria del senatore Maurizio Saia (Pdl), secondo il quale possono essere venduti i beni confiscati e non assegnati entro 90 giorni. Anche se l’emendamento prevede specifici controlli, il timore è che prestanome dei clan se ne riapproprino, “con un effetto dirompente -secondo Libera- sulla credibilità delle istituzioni”.
In realtà la riassegnazione a fini sociali va già a beneficio delle casse pubbliche, in particolare di quelle dei Comuni, che secondo l’ultima relazione parlamentare sui beni confiscati hanno destinato il 42% degli immobili sottratti ai clan a fini istituzionali, cioè scuole, comandi dei vigili, uffici giudiziari, commissariati.