Cultura e scienza / Opinioni
La “fede incerta” che deve animare i docenti universitari
Pensiero critico, dubbi e contestazioni ai dogmi sono alla base dell’insegnamento. Per formare persone umane. La rubrica di Tomaso Montanari
A che cosa serve l’università, qual è il suo vero scopo? È lo stesso della scuola: perché l’università è parte della scuola, è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima ancora persone: persone umane. Tutta l’università esiste per formare umani, anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o non formano esseri umani. In modo tutto particolare questo è vero per gli studi umanistici: noi umanisti siamo capaci solo di fare quello e, se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore.
Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi. Un singolare paradosso, confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities, e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la vita? Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo fontane aride.
E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione, non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone in cui le persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui Marc Bloch paragona lo storico: “Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda”. Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far vivere più intensamente. Più umanamente.
La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico, la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità, a partire dalla nostra. A partire da quella del rettore. La nostra deve essere un’università ribollente di letture tendenziose. È il titolo delle “parole dette [da Franco Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno”, il 15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti di tutta l’università italiana: “Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve leggere”.
Chi insegna all’università deve costantemente ricordare che la sua ispirazione è questa fede incerta, piena di dubbi. Consapevole che ha scelto questa vita e questa via, non perché pensa di sapere molto. Al contrario, l’ha scelta perché sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wisława Szymborska, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996: “L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante ‘non so’ […] due piccole paroline: ‘Non so’. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. […] Se la mia connazionale Maria Skłodowsk Curie non si fosse detta ‘non so’, sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva ‘non so’ e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca”.
Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
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