Interni
La cooperazione che verrà – Ae 79
Dal movimento a un ruolo nel governo: intervista a Patrizia Sentinelli, viceministra degli Esteri con delega alla cooperazione “La cooperazione non può essere ancillare a strategie geopolitiche”. Così ha concluso il suo intervento agli Stati generali sulla cooperazione dello scorso…
Dal movimento a un ruolo nel governo: intervista a Patrizia Sentinelli, viceministra degli Esteri con delega alla cooperazione
“La cooperazione non può essere ancillare a strategie geopolitiche”. Così ha concluso il suo intervento agli Stati generali sulla cooperazione dello scorso novembre Patrizia Sentinelli, oggi viceministra degli Esteri con delega alla cooperazione internazionale dopo anni di impegno nelle file del Pci (prima), di Rifondazione comunista (poi) e nei movimenti sociali.
Nel nuovo ruolo che il nostro Paese si sta ritagliando in campo internazionale, che spazio c’è per la cooperazione?
Credo sia sotto gli occhi di tutti come la politica estera del nostra Paese abbia mutato di segno, in direzione di un maggiore multilateralismo, nel tentativo di tessere relazioni tra Paesi e popoli. Dentro a questo quadro si iscrive anche la nuova politica di cooperazione, che per me è parte integrante della politica estera. La cooperazione non è subalterna agli interessi geopolitici del Paese ma cooperazione internazionale “allo sviluppo”, se come tale intendiamo uno sviluppo umano, della convivenza, delle libertà, delle capacità di autopromozione dei Paesi più poveri. Come da noi è necessario per il governo farsi attraversare dalle istanze della società civile, pena l’autoreferenzialità inefficace, così dobbiamo essere in grado di spingere per avere relazioni anche con la società civile di quei Paesi con cui cooperiamo. Credo che due esempi siano abbastanza esemplificativi: il bilancio partecipativo e il bilancio di genere, la produzione concreta quindi di nuova democrazia.
Altra questione sono gli Epas (Accordi di partenariato economico tra l’Unione Europea e le ex-colonie dei Paesi Acp, ndr): come facciamo a pensare che nel commercio internazionale si introducano elementi negoziali come gli Epa se gran parte della società civile dei Paesi dell’Africa, spesso appoggiata dagli stessi governi Ue, non li vuole?
Pensiamo anche al conflitto israelo-palestinese: il ministero ha saputo mettere al centro la risoluzione del conflitto, e porla con grande forza come aspetto prioritario nell’agenda politica del nostro Paese e della comunità internazionale.
La stessa missione delle Nazioni Unite in Libano, che nessuno di noi ha nascosto essere rischiosa e problematica, è nata dentro questo nuovo quadro della politica multilaterale e di interposizione. Non più una logica di guerra permanente da perpetrare, ma una logica di costruzione della pace che passa attraverso l’arte del negoziato, dell’accordo e quindi della diplomazia.
Le sue dichiarazioni riconoscono alla società civile competenze politiche e professionali oltre a una spinta ideale. Stiamo superando la fase de “i movimenti malattia infantile della politica”?
Credo di sì. A me viene naturale mettere in relazione l’istanza di governo con quella di movimento, in una relazione però in cui ognuno ha una sua chiara autonomia. Rifuggo l’idea di un governo amico o di un’organizzazione sociale amica del governo e ancor più da una pratica di generalizzazione. Al contrario, credo che i saperi che nascono all’interno dei movimenti siano beni preziosi da tutelare, necessari per innovare la pratica di governo. In questo è stata centrale l’inaugurazione di un percorso partecipato, che ha portato all’organizzazione del “Forum sulla cooperazione per la pace e la solidarietà”, che ha permesso di trattare argomenti come la lotta alla povertà, i beni comuni, le tematiche di genere e l’alta formazione, all’interno delle sale di questo ministero. Qui sta tutta l’esperienza del consumo critico, del commercio equo e solidale, delle banche del tempo, di quella economia informale che dovrà diventare spina dorsale dell’economia formale. Non solo scelte etiche, ma scelte profondamente politiche, centrali nel concetto di cittadinanza attiva. Questo ha portato all’apertura di un tavolo di confronto con la società civile, per l’elaborazione di una legge delega di riforma della legge 49/87 sulla cooperazione. Una scelta che ha coinvolto durante la prima riunione del tavolo circa 70 persone in rappresentanza di oltre 40 organizzazioni e associazioni della società civile. In seguito, per essere più operativi, abbiamo chiesto che queste organizzazioni si coordinassero in una cabina di regia che oggi conta una quindicina di persone. A questo va aggiunta la proposta di inserire in premessa le questioni dell’economia solidale e dei beni comuni come nuovi elementi di una cooperazione rinnovata.
Siamo alla vigilia del Forum sociale di Nairobi, a cui parteciperà anche lei. È possibile oggi far dialogare gli spazi di movimento con politiche governative e macroeconomiche orientate all’equità?
Il Forum sociale mondiale non è solamente uno spazio accademico di confronto, ma è un terreno dove si possono ridefinire le nuove soggettività, a partire dalle esigenze delle comunità, dei piccoli produttori, degli esclusi.
Per questo il ministero ha deciso di contribuire al Forum con 300 mila dollari per spese di comunicazione (interpreti, computer). In contemporanea a questa iniziativa, abbiamo affiancato la questione della remissione del debito estero legata alla riqualificazione di zone degradate come Korogocho, così come ci è stato proposto. Sarebbe stato possibile procedere su questa strada senza gli stimoli e le proposte provenienti dai movimenti, alcuni dei quali presenti al Forum? Credo di no. È in questa sinergia, nel rispetto dell’autonomia reciproca, che credo passi l’inversione di tendenza.
Parliamo di coerenza delle politiche, un concetto caro ai movimenti, ma ripreso spesso anche nei suoi interventi. Quali sono le prospettive?
Mentre per la politica estera comincia a essere evidente un nuovo corso, non credo si possa dire lo stesso per la politica economica di questo Paese, e lo dico consapevole di avere una responsabilità di governo. Questo perché il tema della coerenza di governo non è stato assunto da tutti nello stesso modo, si parla in modo eccessivamente ossessivo di centralità del prodotto interno lordo come strumento di misurazione della crescita del benessere, si vedono impostazioni che mettono al centro privatizzazioni e competizione. Credo che siano filosofie economiche che dovrebbero essere riviste cominciando a ragionare anche su altri parametri, a cominciare dal rispetto del parametro ambientale, che mette in ballo la questione “grandi opere”, oppure dell’altra economia, troppe volte vista dai miei colleghi come un’importante esperienza di nicchia, magari da sostenere con leggi ad hoc, ma non certo come parte del processo di riforma dell’economia. Le novità ci sono, certo, ma c’è ancora uno scarto sul quale credo si debba lavorare per conquistare maggiore coerenza. Un lavoro che richiama la società civile al suo ruolo come soggetto critico e credibile e che chiama a forti responsabilità anche il governo: siamo riusciti faticosamente ad aumentare le risorse per la cooperazione dai 392 milioni di euro stanziati dal governo Berlusconi l’anno scorso ai 650 milioni di quest’anno. Purtroppo come tutti i ministeri subiremo il taglio trasversale che li farà scendere, ma la soglia dei 600, che avevamo individuato come minima per invertire la tendenza, sarà rispettata.
Il “personale è politico”. Quali le sue aspettative personali per un nuovo corso della politica?
Credo innanzitutto che la coerenza che si invoca a livello di governo debba essere centrale anche nella vita di tutti i giorni. E i punti di riferimento dovrebbero essere la sostenibilità e la sobrietà, tanto nella spesa pubblica che nei comportamenti individuali. Un esempio, credo simbolico, ma proprio per questo evocativo: smettiamo di utilizzare l’acqua minerale nei nostri incontri di governo e di movimento. Potrebbe essere un piccolo passo nella direzione di un’acqua non più merce ma bene comune dell’umanità.
Lo stato inadempiente con le ong
40 milioni di euro gli arretrati non ancora versati dal ministero degli Esteri nelle casse
delle organizzazioni non governative (ong). Una situazione che si trascina dal 1994 e che rischia di aggravarsi a causa di una direttiva di un paio di anni fa, che ha ulteriormente rallentato le procedure dell’ufficio centrale di bilancio della Farnesina. Per essere ammissibile, cioè per poter ottenere dallo Stato ciò che le spetta, una ong dovrebbe infatti presentare un curriculum di “buona condotta”, dimostrare insomma di non avere contenziosi aperti con l’erario. Sul curriculum si richiederebbe la garanzia del direttore generale della cooperazione. Una responsabilità non di poco conto: è altamente probabile che un’organizzazione in sofferenza finanziaria, proprio perché si trova ad avere i fondi bloccati, potrebbe essere in debito con lo Stato, anche solo di 50 euro.
Niente fondi contro l’aids
L’Italia è in debito anche con il Fondo globale per la lotta alle pandemie (Aids, tubercolosi e malaria) costituito al vertice G8 di Genova nel 2001. Il nostro Paese deve 280 milioni di euro (20 per il 2005, 130 per il 2006, 130 per il 2007), ma il governo Prodi ha cancellato lo stanziamento previsto per il 2007 la sera prima della fiducia alla Finanziaria. Nel 2006, i morti d’Aids sono stati circa 2,9 milioni e i malati sono ormai 39,5 milioni (con 4.3 milioni di nuovi casi, il 65% dei quali nell’Africa Sub-Sahariana).
La viceministra Sentinelli ha assicurato la copertura dei 20 milioni di debito risalente
al 2005 attraverso fondi di recupero, e la proposta di un disegno di legge ad hoc per il rifinanziamento del Fondo. E senza toccare le risorse per la Cooperazione.