Economia / Varie
La casa è un diritto umano
Nel 2014 in Italia i proveddimenti di sfratto emessi sono stati oltre 77mila, il 5% in più rispetto al 2013. Ben 36.083 quelli eseguiti con intervento di un ufficiale giudiziario. Altreconomia ha intervistato Leilani Farha, relatrice speciale delle Nazioni Unite per il diritto a standard abitativi adeguati: “Chi opera intorno al tema dell’abitare, tanto il pubblico quanto i soggetti privati, deve considerare il diritto alla casa come un diritto umano, perché ogni loro azione ha implicazioni in materia di tutela di diritti umani"
Leilani Farha è la Relatrice speciale delle Nazioni Unite per il diritto a standard abitativi adeguati (adequate housing, in inglese), considerati una “componente fondamentale del diritto a uno standard di vita adeguato”.
Il suo ufficio dipende da quello dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (www.ohchr.org).
Il 9 marzo scorso ha presentato, per la prima volta -è in carica da giugno 2014-, il proprio report nel corso della 28ima sessione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, che si è tenuto a Ginevra.
Avvocato, canadese, direttrice esecutiva della Ong Canada Without Poverty, Leilani Farha traccia -rispondendo alle domande di Altreconomia- un bilancio dei suoi primi mesi da Special Rapporteur. “Anche se mancano statistiche adeguate in merito all’estensione di un problema che ha molteplici rappresentazioni, che vanno dalla presenza di homeless in ambito urbano agli sgomberi forzati per far posto a mega-progetti, fino agli insediamenti informali, questo non mi spaventa -spiega-: non mi preoccupa tanto l’assenza di dati, quanto la mancanza di attenzione nei confronti di quelle che sono violazioni dei diritti umani, e non vengono percepite come tali. Se gli sgomberi forzati (forced eviction), un fenomeno che coinvolge milioni di persone in tutto il mondo, venissero considerati una forma di tortura, allora la comunità internazionale sarebbe chiamata ad affrontare il problema in modo più forte. Sono lo Special Rapporteur per il ‘diritto alla casa come diritto umano’, e so che non molti lo considerano tale. Misure dei fenomeni e statistiche sono importanti per verificare i progressi, ma non possiamo attendere questi dati per agire e risolvere i problemi. Inoltre, la raccolta, se guardiamo a determinate categorie deboli, non è semplice: le donne sole con bambini anche se sono homeless non vivono per strada, ma chiedono ospitalità ad amici o parenti, anche se restano ‘donne senza casa’. Le statistiche spesso non sono in grado di cogliere tutte le sfumature di un problema complesso”.
La figura di uno Special Rapporteur on adequate housing è nata nel 2000, in concomitanza con l’approvazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio. Da allora, è aumentata -in termini assoluti- la popolazione urbana concentrata negli slum, da 760 a 863 milioni di persone. Quali sono i principali problemi nel garantire il diritto all’abitare in questi contesti?
C’è una tensione permanente tra gli insediamenti informali, che esistono a partire da situazioni di necessità, e rispondono all’esigenza che alcuni hanno di vivere in un luogo dove non possono permettersi l’acquisto di terra, l’affitto di una casa, e chi governa, ai vari livelli, che ha bisogno di un società ordinata, di una pianificazione urbanistica fondata sul diritto di proprietà.
Questa tensione riguarda, spesso, soggetti molto poveri o a basso reddito, e poi disabili, migranti: in molte città, assistiamo a un problema di speculazione sulle terre, perché quando investitori stranieri o persone ricche acquistano terreni rendono il tutto più caro.
A fronte di questa situazione, prevale da parte delle istituzioni un’idea di slum up-grading, che le città devono essere belle: questo principio, che guidava anche gli Obiettivi del millennio, può diventare un abuso. Molti sarebbero d’accordo con chi afferma che le condizioni all’interno degli insediamenti informali debbano essere migliorate, ma questo significa promuovere l’accesso a tutti i servizi, dall’elettricità all’acqua potabile. Assistiamo invece a sgomberi forzati di intere comunità, e coloro che vengono allontani dagli slum spesso non vengono collocati altrove. Poi la proprietà è acquistata dallo Stato o anche da privati, che intervengono formalmente per rendere il tutto più bello.
Quando ci si prepara ad ospitare mega-eventi, che dovrebbero portare vetrine mondiali, come la Coppa del mondo di calcio o le Olimpiadi, questa tensione si esaspera, come si può notare adesso in Brasile (il Paese che ha ospitato la Fifa World Cup nel 2014 e i World Olympics Games nel 2016, ndr) dove i più vulnerabili sono quelli che stanno peggio. Ciò accade perché il diritto alla casa non è identificato come tale, né parte di questo processo.
Nel presentare le sua agenda, ha evidenziato l’esigenza di garantire un coordinamento tra istituzioni locali, regionali e nazionali per favorire l’accesso alla casa. Perché lo ha indicato come una priorità? Quali problemi pensa di affrontare in questo modo?
Tutti i problemi legati all’abitare riguardano un livello locale. Non importa come sia strutturato un Paese, se esso abbia un ordinamento federale o molto centralizzato, con un governo molto forte, ma i problemi legati alla casa sono locali. Questo però non significa che le cose debbano avvenire in forma isolata. Tutti i livelli di governo devono agire insieme, perché sono quelli nazionali ad avere obblighi con la comunità internazionale in merito alla tutela dei diritti umani, tra cui quello alla casa. Le istituzioni locali dovrebbero ricevere risorse e formazione in merito.
Lei ritiene che la creazione di alloggi da destinare alle fasce meno abbienti della popolazione sia ancora un compito degli Stati, o pensa che questi possano vendere il patrimonio immobiliare pubblico?
Chi opera intorno al tema dell’abitare, tanto il pubblico quanto i soggetti privati, deve considerare il diritto alla casa come un diritto umano, perché ogni loro azione ha implicazioni in materia di tutela di diritti umani.
La presenza e un utilizzo adeguato di un patrimonio immobiliare pubblico è importante, perché il mercato si è dimostrato non in grado di operare in modo adeguato nei confronti dei più vulnerabili. Ma la “risposta” non è, necessariamente, un sistema puro di abitazioni di proprietà pubblica: anche il privato potrebbe essere coinvolto, ma lo Stato e le istituzioni locali devono poter contare su meccanismi che lo rendano responsabile.
Non posso affermare che ovunque nel mondo il pubblico deve avere un controllo, ma è certo -ed è ciò che riscontro nel mio lavoro- che è più facile portare un soggetto pubblico, a partire da chi si occupa di progettazione urbanistica, e non uno privato a considerare la variabile diritti umani nella propria azione.
Alcune città hanno sancito, attraverso leggi e mozioni, il “diritto alla città” (Buenos Aires) e il “diritto a un’abitazione degna” (Madison, USA). Quali sono, a suo avviso, gli strumenti principali da attuare per realizzare questi principi? In che modo la programmazione urbanistica e la rendita immobiliare influenzano l’efficacia di questi diritti?
Il nodo è quello dell’applicabilità, ovvero della capacità di assicurare che queste definizioni non si fermino alla carta. Devono esistere meccanismi che fanno sì che una famiglia povera, quando ritiene di vivere in una abitazione non adeguata possa denunciarlo, possa presentare istanza di fronte alle istituzioni. Credo che la cosa migliore sia istituire l’ufficio di un Ombudsman, un garante dei diritti a livello locale, un soggetto considerato più accessibile del giudice, anche per una questione di costi, che favorirebbe l’accesso alla giustizia.
Credo inoltre che sarebbe fondamentale, almeno una volta ogni due anni, convocare un incontro per capire che cosa sta accadendo a livello locale, per essere sicuri che ci siano passi in avanti nell’applicazione delle leggi che riconoscano il diritto umano all’abitare.
Anche chi lavora alla pianificazione urbanistica, e coloro che costruiscono case, devono pensare che mentre sviluppano il proprio business, creano anche le condizioni per la tutela, o meno, dei diritti umani. Questo è un aspetto fondamentale: la casa è vista come un bene di consumo, una commodity. Ma questi soggetti devono poter realizzare che si sono messi nel “business dei diritti umani”: che devono incorporare questi valori nella loro attività.
Recentemente, in una lettera inviata al governo olandese insieme ad alcuni colleghi, ha evidenziato l’esigenza di garantire l’accesso a una casa a rifugiati e richiedenti asilo. Pensa che esista, in Europa, un problema legato alla discriminazione di determinate fasce di popolazione?
Riprendendo la riflessione sui diversi livelli di governo, le municipalità devono garantire a tutti un luogo sano in cui vivere, ma non hanno risorse per farlo. In questo contesto, è più facile escludere quei soggetti che non hanno un titolo legale per essere all’interno del Paese. È un problema di discriminazione, che esiste.
Ciò che mi sorprende, e come può chi governa non comprendere che ognuno di noi ha bisogno di un posto dove vivere. Che cosa succede a queste persone escluse? Dormono per strada?
Se leggiamo determinati provvedimenti in un ottica di diritti umani, non hanno senso. In Europea anche altri gruppi, ad esempio i rom, hanno subito discriminazioni. Il mio mandato fin dal nome richiama il tema del diritto alla casa come forma di non discriminazione, ed è per questo che mi occuperò anche di questo tema.
In una missiva indirizzata alla Banca mondiale, invece, avete richiesto all’istituzione multilaterale l’inclusione del diritto all’abitare tra gli standard sociali di valutazione dei progetti finanziati. L’ufficio dello Special Rapporteur si occupa anche di “forced eviction”, allontanamenti forzati. In che modo mega-progetti e accordi commerciali possono debilitare il diritto a un’abitazione degna?
Spesso la realizzazione di grandi progetti comporta un impatto negativo, lo sfollamento di intere comunità. In ambito urbano, succede per costruire grandi centri commerciali, anche in Africa, in ambito rurale per la realizzazione di dighe.
A volte, la realizzazione di questi interventi, e quindi anche le sue conseguenze sulla popolazione, può essere considerata necessaria, ma questo non significa in alcun modo che il soggetto proponente o finanziatore possa passare sopra i diritti umani di chi vive nell’area. Le comunità devono essere consultate, per scoprire che spesso hanno idee molte interessanti su modelli di sviluppo alternativo. Quando poi, a valle di un processo del genere, dovessero darsi situazioni di sgombero, accettati dalle comunità, queste devono essere seguiti dalla creazione di nuovi insediamenti adeguati. La Banca mondiale, a nostra avviso, dovrebbe includere una riflessione sul diritto all’abitare come diritto umano tra le sue policy.
Ed è questo che abbiamo chiesto. —