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Opinioni

La carta d’intenti di Parigi

Il 22 aprile 2016, a New York, le Nazioni Unite iniziano a raccogliere le firme dei Paesi in calce all’Accordo sul clima, frutto della Cop21 di Parigi. La conferenza ha aperto un piccolo spiraglio, anche se nel testo restano numerose ambiguità, che riguardano, ad esempio, la tutela dei Paesi più colpiti dal cambiamento climatico e della sicurezza alimentare. Scrive Roberto Mancini: "La coscienza ecologica transnazionale si è diffusa e rafforzata, rendendo impossibile ai governi l’opzione che porta semplicemente a ignorarla"

Tratto da Altreconomia 178 — Gennaio 2016

Un piccolo spiraglio e tanta ambiguità. Così mi pare che si possa leggere l’esito della conferenza di Parigi convocata per stabilire coralmente un limite alle pratiche che provocano il surriscaldamento climatico del pianeta. Partiamo dalle ambiguità, dalle reticenze e dalle resistenze a una svolta vera. I limiti maggiori, anzitutto, stanno nel fatto che non ci sono sanzioni per le nazioni che non rispetteranno l’accordo, né si spiega quali provvedimenti concreti saranno presi per attuarlo.
Tutto questo rischia di fare del testo varato a Parigi una carta d’intenti che ogni nazione tenderà a ritenere vincolante per le altre ma non per sé. Ognuno crede sempre di avere buone ragioni per stabilire un’eccezione a proprio vantaggio. Inoltre, è un brutto segno, rispetto ai reali rapporti di forza che si nascondo dietro le enunciazioni di principio, che l’uso delle energie fossili non sia stato apertamente criticato e che non si dica nulla di concreto sulla scelta del ricorso alle energie rinnovabili.

Per giunta, dalla conferenza di Parigi non viene alcuna indicazione chiara per tutelare i Paesi più colpiti dal cambiamento climatico. Analogamente, mancano i riferimenti sia al processo necessario a tutelare la sicurezza alimentare di tutti, riscattando quanti oggi sono alla fame dalla loro situazione di oppressione e di sfruttamento, sia più in generale al rispetto concreto dei diritti umani, Paese per Paese. Non sono temi laterali o fuori luogo: non ci vuole molto a capire che la tutela ecologica del pianeta è intrecciata essenzialmente con il rispetto delle persone e dei popoli. Le due cose procedono, o regrediscono, insieme. Tale mancanza di riferimenti è l’indizio di un difetto di fondo: molti tra i rappresentanti politici riuniti a Parigi o non hanno la minima consapevolezza critica dell’urgenza di costruire un modello economico inedito, molto più equo e affidabile di quello della globalizzazione capitalista e della sua devastante finanziarizzazione, oppure sono direttamente in malafede e invece di superarlo lo vogliono rafforzare ulteriormente.
Dal complesso di questi segnali si delinea un quadro poco rassicurante, che lascia trasparire una logica non molto diversa da quella tipica dei nazionalismi e del caos sistemico oggi predominante nello scenario delle relazioni internazionali.

Dov’è allora lo spiraglio? Mi sembra che vada cercato soprattutto in due fattori. Il primo è quello per cui la coscienza ecologica transnazionale si è diffusa e rafforzata, rendendo impossibile ai governi l’opzione che porta semplicemente a ignorarla. Il secondo è dato dall’aver istituito un canale e un luogo di confronto internazionale, dopo anni nei quali la prassi del dialogo e delle decisioni comuni è stata semplicemente cancellata. Come si vede sono due fattori importanti ma aggirabili (soprattutto il secondo) non solo dai governi, ma soprattutto da quelle oligarchie globali (finanziarie, industriali, politiche, mediatiche) che non hanno alcun interesse a mettersi sulla via della salvaguardia del pianeta e della democratizzazione della società mondiale.

La fragilità dei passi avanti registrati a Parigi evidenzia una volta di più la necessità vitale dell’attivazione dei cittadini organizzati tanto in movimenti di respiro internazionale, quanto nelle istituzioni locali e nazionali. Infatti se ogni singolo Paese della terra sviluppa la propria fisionomia autenticamente democratica, nonviolenta ed ecologica, allora diventa un concreto co-soggetto per il processo che porterà a un sistema alternativo, l’unico che possa garantire la sorte dei popoli e della natura. Da questo punto di vista guardare al profilo dei governi e dei partiti, in particolare in Europa, è sconsolante per la mediocrità dei soggetti emergenti, per la povertà etica e culturale di queste organizzazioni, per l’accecamento ideologico che fa del neoliberismo il dogma indiscusso che avvolge, come una nebbia mortale, le istituzioni e la mentalità prevalente. Siamo nella condizione di considerare già un grande successo se si riesce ad arrestare l’avanzata delle forze neofasciste. In una situazione così i cittadini più consapevoli devono organizzarsi meglio, allestendo le basi culturali, le buone abitudini, le idee, le forme di rappresentanza necessarie a riparare, anzi a rigenerare, lo strumento della politica istituzionale, che oggi è fuori uso e si presta soltanto ad assecondare la prepotenza delle oligarchie. —
 
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