La battaglia delle cave – Ae 77
A Nervesa, in provincia di Treviso, luogo simbolo dello sviluppo del Nordest, il territorio per estrarre ghiaia e sabbia è esaurito.Così i cavatori tentano di aggirare la legge con un éscamotage. Ma è tutto il Veneto a rischiare grosso Accanimento…
A Nervesa, in provincia di Treviso, luogo simbolo dello sviluppo del Nordest, il territorio per estrarre ghiaia e sabbia è esaurito.
Così i cavatori tentano di aggirare la legge con un éscamotage. Ma è tutto il Veneto a rischiare grosso
Accanimento terapeutico. Il malato terminale è la democrazia, e il suolo (il territorio, il paesaggio) la posta intermedia in gioco.
Sì, ci vuole molta passione per la democrazia e molta pazienza, e poi determinazione, per vincere una battaglia come quella iniziata due anni fa a Nervesa, in provincia di Treviso. La Marca trevigiana è uno dei luoghi simbolo dello sviluppo del Nordest, ma anche terra ricca di memorie storiche nazionali: da queste parti “il Piave mormorò”, e i nomi dei luoghi cambiarono dopo gli avvenimenti tragici ed eroici del 1918. Nervesa divenne Nervesa della Battaglia e l’Ossario che raccoglie le spoglie dei caduti è ancora oggi visitato da 30 mila persone l’anno.
E poi, terra di cave. Come dice il sindaco di Montebelluna, Laura Puppato: “Il problema di questo territorio è che siamo seduti su un letto di ghiaia, e sa come chiamano la ghiaia da queste parti? L’oro bianco!”. Sabbia e ghiaia. Abbondante, compatta e di ottima qualità. E praticamente sotto i piedi. Non bisogna scavare a grande profondità per arrivarci. È l’eredità dell’antichissimo letto del Piave (il paleo-alveo), ricchezza e maledizione di questo territorio.
Come mi fanno notare i cavatori, “finché ci sarà bisogno di costruire case ci sarà bisogno di sabbia e di ghiaia”. Già, case; e poi capannoni, e poi strade, centri commerciali, e parcheggi e infrastrutture e grandi opere, pubbliche e private. Il settore delle costruzioni (e delle demolizioni) è uno di quelli a maggiore impatto ambientale: per le risorse naturali che richiede e per i rifiuti che produce. Non ci pensiamo mai quando parliamo dei nostri stili di vita, ma basta venire da queste parti per rendersene conto. Lo sviluppo edilizio è stato forsennato, e le cave gli sono andate dietro. Risultato: un territorio pieno di edifici ma anche di voragini.
Qui le cave spuntano in pieno territorio agricolo: un campo seminato a mais, un altro piantato a vigneto e quello accanto svuotato, come scomparso. Depressioni di 20-25 metri di profondità, talvolta di più, lunghe centinaia e centinaia di metri. Solo che non è facile vederle: l’area di cava è circondata di siepi compatte, le stesse che altrove occultano e garantiscono la privacy dei campi da golf. Qui invece sono deputate a nascondere una ferita che, altrimenti, sarebbe insopportabile alla vista. A Nervesa di cave ce ne sono 4, per un totale di 984 mila metri quadrati di superficie. Da quando sono state aperte, nel 1989, sono stati asportati 15 milioni di metri cubi di materiale. Insieme alla cava contigua (che forma un continuum ma che ricade nel Comune di Spresiano) formano uno dei bacini di ghiaia più estesi del Veneto.
Le 4 cave hanno esaurito il territorio comunale che, per la legge regionale del 1982, può essere destinato all’attività estrattiva di ghiaia e sabbia (il 3 per cento del territorio agricolo; il limite è invece del 5 per cento se si tratta di cave di argilla, e del 4 per cento se ghiaia e argilla sono compresenti).
Esaurito.
E infatti attorno alla metà degli anni Novanta la Regione ha negato l’autorizzazione all’apertura di una quinta cava e, successivamente, l’ampliamento delle cave esistenti, ribadendo il raggiunto limite del 3 per cento. Se non si può allargare la superficie, si può però scavare più in profondità. Sembra ovvio, ma non lo è per due ragioni: la legge prevede che lo scavo debba mantenersi almeno a 2 metri di distanza “rispetto al livello di massima escursione delle falde freatiche”, per limitare i rischi di inquinamento di un bene supremo come l’acqua. Ma non solo: una volta esaurita l’attività (il che da queste parti avviene raramente, e comunque dopo almeno vent’anni, dato che la ghiaia è presente fino a 200 metri di profondità), la legge prevede che la cava debba essere “ripristinata”, cioè riportata all’originario stato (in generale al precedente uso agricolo). Questo avviene per esempio in Svizzera, ma qui le cave sono in genere più piccole. Diverso pensare di “ripristinare” una voragine con un perimetro di chilometri e profonda decine di metri. E così, anziché di “ripristino”, si parla sempre più spesso di “recupero” della cava ad altri usi, per esempio di verde pubblico con un’opera di rinverdimento o rimboschimento, oppure con impianti sportivi. O ancora, ed è la soluzione più economica in un territorio ricco d’acqua di falda, si trasforma la cava in un “laghetto”.
Se guardate dall’alto questo territorio con Google Earth (il programma gratuito che consente di vedere anche i tetti dalle nostre case dal satellite) vedrete un sacco di laghi e laghetti artificiali. Tutti cave, ancora parzialmente attive, o ex cave.
Le 4 cave di Nervesa nel 1989 sono state autorizzate a scavare fino a 16 metri, poiché la falda freatica era stata individuata pochi metri più sotto. Poi però, sulla base di perizie e di rilievi che attestavano un presunto abbassamento definitivo della falda, i cavatori hanno chiesto e sono stati autorizzati a scendere a meno 21 metri dal piano della campagna. Tra il 2005 e il 2006 hanno ottenuto un ulteriore approfondimento di 5 metri. Poi però basta, dovranno chiudere e ripristinare l’area.
Ed ecco la questione. Il Comune di Nervesa (che dal 2003 ha un’amministrazione della Lega Nord più una lista civica), d’accordo con le imprese escavatrici, nel febbraio del 2005 presenta un Piano integrato di riqualificazione urbanistica (Piruea) volto al recupero ambientale dell’ampio bacino di cava. Bene, direte voi.
Un disastro invece. In realtà il piano è solo un éscamotage che consente il sostanziale raddoppio del bacino di cava, in violazione di ogni limite di legge. In pratica il Comune autorizza un prelievo di 17 milioni di metri cubi di ghiaia e lo giustifica come “movimento terra” per arrivare, ma solo nel 2020, ad avere due laghetti, e una serie di impianti sportivi che i cavatori si impegnano a realizzare per il recupero dell’area. Intanto, per i prossimi 15 anni si continuerà a scavare. Valore stimato della ghiaia estratta: circa 220 milioni di euro. Il gioco vale la candela. La sfortuna del sindaco e delle imprese dei cavatori è la competenza -e la passione e la determinazione, come dicevamo all’inizio- di alcuni di quelli che siedono sui banchi dell’opposizione e dei comitati anti-cave.
Qui come altrove (si pensi al ponte sullo Stretto di cui parliamo anche in questo numero, o all’opposizione della Val di Susa all’Alta velocità) paga la capacità di documentare le proprie ragioni e una volontà indefessa di difendere il bene di tutti. Alcuni tratti sono comuni: in ognuno di questi casi il territorio e il paesaggio sono beni da difendere, non solo per chi ci abita ma per tutti. Nonostante un’opposizione dura, nonostante le proteste dei cittadini di Bidasio (la frazione interessata), il piano passa in Consiglio comunale. Poi va in Regione. Il dirigente della direzione Geologia e ciclo dell’acqua, l’ingegner Andrea Costantini, mette nero su bianco che si tratta di una cava mascherata. E anche qui il piano viene approvato, con una rapidità sospetta, rispetto all’arretrato di pratiche.
Nervesa stavolta sembra aver perso la sua battaglia. Sarebbe legittimo rassegnarsi. Se fosse così oggi Nervesa avrebbe ipotecato il suo futuro per almeno i prossimi 15 anni. Ma non solo. Scrive Francesco Tartini, capogruppo in Consiglio comunale della lista civica “Progetto Nervesa città per la pace”: “Se passa a Nervesa il principio che un’escavazione di oltre 17 milioni di metri cubi può essere assimilata ad un semplice ‘movimento terra’, e che per recuperare a fini ambientali una cava è possibile procedere al suo raddoppio, questa metodologia di intervento potrà essere riproposta ovunque nelle oltre 800 cave del Veneto, scardinando di fatto i già modestissimi strumenti di tutela previsti dalla legge regionale del 1982”. Ecco la posta in gioco. Francesco Tartini e Sandro Fontebasso, consiglieri comunali d’opposizione di “Progetto Nervesa”, non si rassegnano. Troppe, e troppo evidenti, le violazioni della legge. Ci si muove insieme: Italia Nostra, sulla base dei rilievi di Tartini presentati in Consiglio comunale, fa ricorso al Tribunale amministrativo regionale (Tar).
Si aggiungono il Wwf e un gruppo di residenti nella frazione Bidasio. I tempi della giustizia amministrativa sono lunghi, ma la questione appare sempre più grave. Il 26 giugno di quest’anno Tartini e Fontebasso presentano una denuncia penale alla Procura della Repubblica di Treviso. Lo fanno nella loro veste di “ pubblici ufficiali”. Anche questo è un segno che forse, quando c’è in gioco così tanto, le battaglie non possono essere solo politiche. Certo aiuta il fatto che Tartini, 43 anni, di professione sia avvocato e conosca bene il tema cave per averlo affrontato come sindaco nella legislatura precedente. Le pressioni e gli interessi dei cavatori non gli sfuggono. A segnalarci il suo nome, e il caso di Nervesa, sono gli amici delle Botteghe “Pace e sviluppo” di Treviso e dintorni: Tartini è un loro socio. È anche un abbonato di “Altreconomia”, e coordinatore provinciale di Banca Etica. Mondi che si saldano: la politica, il commercio equo, la finanza etica, l’interesse per il locale e il globale. Non è un caso. Il 31 luglio la grande notizia: il Tar accoglie pressoché integralmente il ricorso e, di fatto, conferma le ipotesi di illecito penale che hanno portato all’esposto alla Procura.
A Bidasio le draghe e le tramogge, almeno in prospettiva, si fermano. Due anni di battaglia non sono stati inutili. Anche se il Comune ricorrerà a sua volta al Consiglio di Stato.
Il confronto però è ancora pesantissimo, qui e in tutto il Veneto. Come è stato possibile ignorare le palesi illegittimità del Piruea? Quali le responsabilità di tecnici, amministratori locali e consulenti? Spiega Giorgio Feston della Confederazione italiana agricoltori e membro da molti anni della Commissione tecnica regionale che valuta i nuovi progetti di cava (o gli ampliamenti): “Con le migliori consulenze si può dimostrare ciò che si vuole”.
Ma allora, esiste o no un problema anche di “etica professionale”?
Tartini e Fontebasso credono di sì e investono della questione gli albi professionali dei segretari comunali e degli ingegneri, a cui appartengono i tecnici che -scrivono- “hanno avallato l’operato dell’amministrazione comunale di Nervesa, palesemente illegittimo”.
La questione cave rappresenta per i Comuni una possibile entrata straordinaria
di bilancio. I cavatori lo sanno e, siccome spesso posseggono o hanno partecipazioni in imprese di costruzione, offrono ai Comuni opere pubbliche “chiavi in mano” contro nuove autorizzazioni di escavazione. È il caso del Piurea di Nervesa.
Per i Comuni a corto di entrate finanziarie è un boccone avvelenato.
Ma poi c’è il piano regionale di attività di cava (Prac) che è in fieri dal 1982. I sindaci sono preoccupati: la giunta di centrodestra guidata da Galan sembra intenzionata a innalzare i limiti di cava sul territorio o, addirittura, a eliminarli. L’unica promessa è di non aprire cave nei Comuni dove già non ne esistono (ma, per esempio, in provincia di Treviso su 95 comuni 48 hanno o hanno avuto attività di cava).
Gli altri, quelli che hanno già i buchi, rischiano di vedere aggravarsi una situazione insostenibile. Comitati anti cave sono sorti ovunque. In alcuni casi si sono schierati anche i parroci e le curie. Il Veneto è investito tra l’altro dalla costruzione di opere strategiche (Alta velocità Mi-Ve, Pedemontana Veneta…) per le quali è previsto il rilascio d’autorizzazioni ad hoc di cave di prestito. Altre voragini.
Prima di dare via al Prac, la Regione dovrebbe essere in grado di determinare i suoi bisogni di sabbia e ghiaia: ma la stima di 17 milioni di metri cubi annui appare ormai superata dai fatti. Il territorio è saturo di edifici e aree industriali e l’edilizia sembra rallentare.
Una via alternativa alle nuove cave c’è, e in altri Paesi europei è già ben praticata: si tratta di riciclare gli inerti che derivano dalle demolizioni. In provincia di Treviso nel 2005 la produzione di inerti è stata di 1,3 milioni di metri cubi, a fronte di un fabbisogno di circa 1,6-1,7 milioni di metri cubi. Il 70-80 per cento delle necessità dell’edilizia e della costruzione di strade potrebbe essere soddisfatto dall’adeguato riciclo di questi materiali.
Sarebbe ora di pensarci. E non soltanto in Veneto.
La legge e la lobby
Le attività estrattive, miniere e cave, sono una delle cause di maggiore degrado ambientale. In Veneto sono censite dalla Regione 603 cave attive e 781 estinte. Poche quelle recuperate.
Dall’inizio degli anni Ottanta (quando è entrata in vigore la legge regionale) sono state autorizzate escavazioni per 454 milioni di metri cubi di materiale: la maggior parte (302 milioni) riguarda sabbia e ghiaia. Nella regione restano ancora da estrarre circa 90 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia (già autorizzati): due terzi (63 milioni) sono concentrati nella sola provincia di Treviso. 46 le cave di sabbia e ghiaia attive in provincia: occupano un totale di oltre 7 milioni di metri quadrati (i dati si riferiscono al giugno 2003). Ma se si considerano tutte le attività di cava, la provincia arriva a quasi 10 milioni di metri quadrati. Un’enormità.
Nonostante ciò i cavatori continuano a presentare domande per nuove cave, o per estendere e approfondire quelle già esistenti.
La normativa regionale (la n. 44 del 1982) prevede che, nel caso di cave di ghiaia e sabbia, si possa scavare fino a un limite massimo del 3 per cento del territorio agricolo comunale (le zone “E”). Il limite è del 5 per cento per le cave d’argilla, e del 4 per cento dove i due materiali sono entrambi presenti. La lobby dei cavatori preme per far saltare questi limiti e gli ultimi pronunciamenti dell’assessore regionale competente, Renato Chisso, vanno in questa direzione.
Occhio non vede…
“Barriere di riduzione interferenze visive”. Le chiamano così le siepi con cui circondano le cave, vere e proprie voragini che, in pieno territorio agricolo, trasformano un paesaggio rurale coltivato in un ambiente desolato. Per questo è bene che non si veda.
Le interferenze visive di fatto sono quelle dei cittadini che vogliono ficcare il naso (e gli occhi). Così le cave sono quasi invisibili. Le siepi intorno crescono con l’approfondirsi del lavoro di scavo: man mano che avanzano i lavori cresce anche la barriera visiva, e la cava scompare.
Peccato per la polvere, onnipresente. Un depliant delle ditte di scavo recita: “Spesso l’area di cava è circoscritta, oltre che dalla recinzione richiesta per legge a fini di sicurezza, anche da una barriera verde realizzata solitamente con essenze autoctone per una migliore integrazione nel contesto ambientale in cui la cava si inserisce”. Per una migliore integrazione nel contesto ambientale in cui si inserisce?! Le parole suonano paradossali. L’obiettivo vero è sottrarre agli occhi una ferita profonda del territorio: occhio non vede, cuore non duole.
Ma non è l’unico esempio di prosa paradossale. Una volta “recuperata”, il più delle volte con un lago artificiale, la cava viene definita come “oasi naturalistica”, “oasi di benessere incastonata come una pietra preziosa in un territorio industrioso”.
Con tutta la fantasia possibile, per noi le oasi naturalistiche sono tutta un’altra cosa.
Il vero paese dei buchi
Visto dall’alto, Paese è pieno di laghetti. Potrebbe sembrare quel che si dice “un ridente luogo” di campagna. In realtà i laghetti sono tutti ex cave di sabbia e ghiaia riempite dopo l’escavazione. Le cifre ufficiali dicono che Paese ha il 4,80 per cento del territorio agricolo trasformato in cava. Il primo cittadino e i comitati civici parlano di quasi il 10 per cento di territorio, se si tiene conto delle strade di cava e delle aree di pertinenza delle fasce di rispetto. Come è stato possibile sforare il limite del 3 per cento posto dalla legge regionale?
Perché la legge è entrata in vigore nel 1982 e il limite del 3 per cento riguarda le escavazioni autorizzate da quel momento, e le cave già attive sono fuori da questo computo.
Secondo la Commissione tecnica regionale nel 2003 questi erano alcuni dei Comuni che erano già ben oltre i limiti di legge:
Arcade (Tv) 3,21%
Valeggio sul Mincio (Vr) 4,97%
Marano Vicentino (Vi) 3,67%
Tezze sul Brenta (Vi) 4,52%
Istrana (Tv) 3,36%
Paese (Tv) 4,80%
Ponzano Veneto (Tv) 3,26%
Vedelago (Tv) 3,50%
S.Martino B.Albergo (Vr) 3,63%
Montecchio Precalcino (Vt) 5,16%