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Economia / Opinioni

Keir Starmer e il “pragmatismo britannico” sulla pelle degli altri

Il primo ministro inglese Keir Starmer a Roma, il 16 settembre 2024, a Villa Doria Pamphilj, Roma © Governo

Il nuovo primo ministro inglese ha espresso interesse per le brutali e propagandistiche politiche migratorie del Governo Meloni: dall’accordo con l’Albania al contrasto ai flussi tramite patti scellerati con Libia e Tunisia. Un approccio presentato come “pragmatico” ma che è erede di una tradizione coloniale. Come insegna il caso dell’evasione fiscale. L’editoriale del direttore, Duccio Facchini

Tratto da Altreconomia 274 — Ottobre 2024

Alla sua prima visita ufficiale a Roma, a metà settembre di quest’anno, Keir Starmer, fresco primo ministro inglese laburista dopo 14 anni di conservatori al potere, ha fatto sfoggio di quel che ha definito il “pragmatismo britannico”. Una politica “concreta”, interessata solo a ciò che “funziona”, scavalcando steccati ideologici. E così ha pubblicamente espresso l’esplicito interesse per le politiche migratorie del Governo Meloni e per quel “modello Albania” che prevede di incarcerare migliaia di persone (anche vulnerabili) dentro centri di confinamento e moderne colonie penali. La via degli accordi a qualsiasi costo con Paesi terzi ha un nuovo adepto, anche se ciò dovesse comportare la violazione di diritti umani fondamentali.

Perché l’imperativo ribadito trasversalmente dai governi è sempre lo stesso: “ridurre i flussi”, fermare le partenze, prefigurando agli occhi dell’opinione pubblica un’invasione che non c’è e recitando il ruolo della vittima, dell’Occidente che subisce e che deve reagire. Per fortuna c’è chi non crede alla favola e lavora per disvelare il racconto coloniale. Quest’estate, ad esempio, diverse organizzazioni per i diritti umani inglesi hanno preso carta e penna e scritto al Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni razziali (Cerd) presso le Nazioni Unite proprio per chiedere di sanzionare il Regno Unito. Hanno elencato le ragioni per le quali ancora oggi Londra remi contro l’eliminazione delle discriminazioni su scala globale. Partendo dal caso dell’evasione fiscale.

Lo scorso dicembre -come abbiamo raccontato su Altreconomia– l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato una storica risoluzione proposta da un gruppo di Paesi africani per l’istituzione di una Convenzione Onu per trasformare in senso democratico ed egualitario le norme fiscali internazionali, oggi ostaggio del “club” dei Paesi ricchi che si raccolgono intorno all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).

Obiettivi della Convenzione: contrastare i paradisi fiscali, l’elusione, rendere trasparenti i bilanci delle multinazionali e delle loro scatole cinesi, far emergere i patrimoni occultati in giurisdizioni di favore, e così via. Chi ha fatto blocco contro quella decisione è stato un gruppo di Stati guidato dal Regno Unito (e Usa). Proprio Londra, appena prima di votare, ha proposto un provocatorio emendamento per eliminare dal testo qualsiasi riferimento alla parola “convenzione”, minando le basi giuridiche del processo. Per fortuna la maggioranza dei Paesi ha risposto picche ed è andata avanti, licenziando a metà agosto 2024 i cosiddetti “Termini di riferimento” della Convenzione in divenire. Entro fine anno l’Assemblea voterà la loro versione finale. Ma perché il Regno Unito osteggia questo cambiamento epocale?

Semplice: Londra e il suo “secondo impero” composto dalle Crown Dependencies e dai Territori d’Oltremare, ci ricorda Tax Justice Network, è ancora oggi il più grande promotore dell’abuso fiscale globale. Nel 2023 almeno 309 miliardi di dollari di profitti sono stati spostati nel “secondo impero” inglese da imprese multinazionali, con un costo per il resto del mondo di oltre 84 miliardi di dollari in termini di tasse non riscosse a causa della scappatoia. Succede ogni anno. Non solo: il Paese governato pro tempore da Starmer è anche responsabile di oltre la metà dei 169 miliardi di dollari di tasse che il mondo perde ogni anno a causa della “delocalizzazione” della ricchezza privata e dell’evasione: oltre 85 miliardi di dollari.

È una tradizione secolare. Secondo uno studio della piattaforma Decolonising economics, infatti, “le pratiche fiscali inglesi nell’India coloniale hanno agevolato in passato l’estrazione di qualcosa come 45mila miliardi di dollari dal continente verso lo Stato britannico e le sue aziende”. Per non parlare dello Slave compensation scheme, in base al quale i proprietari di schiavi furono risarciti per la perdita della loro “proprietà” a seguito all’abolizione della schiavitù, il che diede una spinta fenomenale alla “rivoluzione industriale” e stimolò investimenti in infrastrutture pubbliche che sono vitali ancora oggi. È il pragmatismo di chi comanda.

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