Economia / Opinioni
L’aumento dell’IVA non freni un dibattito sull’equità fiscale
L’incremento di un punto percentuale dell’imposta sul valore aggiunto vale 4 miliardi di euro e può aiutare l’Italia a rispettare i vincoli europei. Ma per sostenere davvero una ripresa, sarebbe opportuni guardare a un mix di misure, compresa una patrimoniale e l’IMU sulla prima casa. L’analisi di Alessandro Volpi
Nelle ultime settimane si è riaperta la discussione in merito alla possibilità di aumentare l’IVA per coprire una parte dei conti pubblici. Si tratta di un tema già affrontato e molto sentito, soprattutto per le peculiarità che tale imposta presenta in Italia: l’IVA costituisce infatti la seconda voce d’entrata tra i tributi italiani con un gettito, nel 2016, pari a 124,5 miliardi, inferiore solo ai 180,6 miliardi dell’Irpef, su un totale complessivo di 472 miliardi.
È evidente quindi che questa voce rappresenta una leva molto delicata da manovrare, la cui gestione è resa ancora più complessa dalla frammentazione delle aliquote, ben quattro, a differenza della maggior parte dei Paesi europei dove esiste un numero assai inferiore di scaglioni e in alcuni casi un’aliquota unica.
Nel caso italiano, poi, l’IVA risulta il tributo più evaso, con una sottrazione di risorse pari ogni anno a circa 40 miliardi di euro, una percentuale doppia rispetto alla media europea.
Infine c’è un ultimo aspetto, che contraddistingue la realtà italiana: l’aumento dell’IVA è individuato come la pressoché unica clausola di salvaguardia automatica posta a tutela del rispetto dei vincoli europei. Ciò significa che ogni anno serve, di fronte all’ipotesi di un’inadempienza italiana, una manovra correttiva per scongiurare l’aumento di simile imposta, necessario altrimenti per coprire il mancato rispetto degli impegni presi in sede europea.
Proprio per l’entità del gettito IVA, infatti, ogni punto percentuale di aumento dell’aliquota massima genera un incremento delle entrate di oltre 4 miliardi, mentre ogni punto in più di quella intermedia ne vale 2.
Come accennato in apertura, nel 2017 alcune voci hanno prospettato la opportunità di non “neutralizzare” il rischio di aumenti dell’IVA, per consentire misure diverse ritenute più efficaci.
In altre parole, pur muovendo dal presupposto di evitare incrementi complessivi della pressione fiscale, il tema dibattuto è stato quello di capire se abbia un senso spostare il prelievo dal lavoro ai consumi: quindi lasciar lievitare almeno in parte l’IVA per ridurre il cuneo fiscale.
È opportuno muoversi in tale direzione? Probabilmente si, ma con alcune avvertenze. Ridurre il carico fiscale sul lavoro è l’unica strada per provare a far ripartire la produzione di reddito nel Paese. Il cosiddetto “cuneo fiscale”, che rappresenta la differenza tra quanto un dipendente costa all’azienda e quanto lo stesso dipendente incassa, al netto, in busta paga, è in Italia uno dei più alti d’Europa, e ciò provoca grandi difficoltà nella creazione e nel mantenimento in vita dei posti di lavoro.
Il peso di tutte le tasse che gravano sul costo del lavoro è stato, nel 2016, pari al 47,8%, una percentuale che colloca il nostro Paese al sesto posto in Europa e ben al di sopra della media dei Paesi OCSE, molto vicina al 36%. È evidente che una sua contrazione potrebbe conferire uno slancio sensibile alla ripresa.
Per finanziare una simile operazione si potrebbe procedere, tuttavia, non solo all’aumento dell’IVA, ma ad un mix di misure. Queste comprendono una riduzione del numero delle aliquote di tale imposta, con un contenuto incremento del prelievo, un allineamento ai valori di mercato della base imponibile della tassazione ricorrente sulla proprietà immobiliare, attraverso la riforma del catasto e, magari, una patrimoniale sulle fasce più alte di ricchezza, abbinata ad una reintroduzione dell’IMU sulla prima casa, modulandola in base al reddito.
Su quest’ultimo punto, sono utili, ancora una volta, i numeri: il mancato gettito sulla prima casa è pari, in Italia, a circa 4 miliardi di euro ogni anno, su un totale di circa 43 miliardi di tassazione complessiva sugli immobili, che comunque rimane nella media dei paesi europei.
Ben più complicato, per quanto certamente necessario, sarebbe mettere mano all’Irpef, che già oggi è di fatto pagata da un’esigua minoranza, concentrata nelle fasce di reddito più alte: nell’ambito dei contribuenti Irpef, infatti l’11,2% dichiara oltre il 52% del totale di tale imposta.
A queste misure si deve aggiungere però la necessità di mettere mano all’IVA prima che l’inflazione salga, perché solo con un livello di prezzi basso tale aumento non sarà avvertito e svolgerà anche la benefica azione di alleggerire l’indebitamento. Forse è davvero il momento di abbandonare gli slogan e di non indulgere soltanto alle soluzioni di breve periodo, imposte da logiche di consenso.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa
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