Esteri / Reportage
Isole Cayman, il corsaro offshore che cambia pelle e sfida l’Europa
L’arcipelago scoperto da Colombo nel 1503 conta appena 58mila abitanti e un’economia domestica di 3 miliardi di dollari. Eppure attrae capitali stranieri per oltre 4mila miliardi. Ecco perché le trattative del dopo “Brexit” lo riguardano
Prima è apparsa all’orizzonte nera. Poi bianca. Infine grigia. Vascelli e sloop hanno sempre prestato molta attenzione al colore della bandiera issata in prossimità delle isole Cayman, famigerato covo dei pirati a Sud di Cuba, nel Golfo del Messico, ma oggi il cannocchiale d’avvistamento viene puntato in direzione opposta: con i mari ormai ripuliti dai predoni, non interessa più conoscere il colore dello stendardo d’abbordaggio, bensì della lista attraverso cui l’Unione Europea determina l’affidabilità dei centri internazionali di finanza offshore. Comodo eufemismo per indicare i presunti “paradisi fiscali”, rimappati lo scorso 5 dicembre con un occhio di riguardo speciale proprio per le Cayman.
Fra i 17 nomi della “Black List” di Bruxelles spicca infatti la loro assenza, nonostante le ultime rivelazioni dei Paradise Papers (i rapporti prodotti dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo) attestino un’evasione fiscale di ben 8 miliardi di euro nel triangolo caraibico composto da Cayman, Antigua e Bermuda. L’elenco ha sollevato ben più di una perplessità, includendo Stati con cui l’Europa mantiene rapporti economici forti, ma nel 2018 sono attesi nuovi colpi di scena: c’è il Bahrein, compare Barbados, sono indicate Grenada, Guam, Corea del Sud e Macao, ma anche le Isole Marshall, la Mongolia e la Namibia; chiudono la lista Palau, Panama, Saint Lucia, quindi Samoa, Trinidad & Tobago, Tunisia ed Emirati Arabi Uniti. Delle Isole Cayman, nessuna traccia. Sparite. O quasi. Benché nel settembre 2016 fossero state incluse dall’Italia nella propria “White List”, perché in linea col Decreto Legge 239/1996 sui regimi fiscali, al momento appaiono sospese a metà strada: in quel curioso limbo chiamato “Grey List”, che include i Paesi impegnatisi ad adottare maggiori misure di trasparenza. In poco meno di un anno i buoni propositi di Jude Scott, chief executive officer di Cayman Finance, la maggior società di promozione finanziaria dell’arcipelago caraibico, sono svaporati: “L’inclusione del nostro Paese nella White List -aveva dichiarato- ci consentirà d’investire in titoli italiani come bond o strumenti di conversione delle passività in titoli negoziabili, ricevendo il pagamento d’interessi al lordo della ritenuta d’acconto. Se le Cayman arriveranno a detenere più del 5% di un fondo d’investimento italiano nel mercato immobiliare, potranno beneficiare inoltre di un’esenzione totale sui profitti generati”.
La manovra del governo Renzi puntava a ottenere liquidità e credito per le aziende, favorendo al contempo la ricapitalizzazione delle banche colpite dalla crisi del credito. Le finanze del piccolo arcipelago caraibico avrebbero inoltre offerto una comoda piattaforma per dirottare investimenti verso altre economie bisognose di liquidità, dando la possibilità di diversificare il portfolio titoli italiano, soprattutto per quanto riguarda i fondi pensione e i fondi d’investimento alternativi. In materia finanziaria è però Bruxelles a dettare la linea. “Confidiamo di poter soddisfare presto tutte quelle voci che l’Unione europea ritiene non ancora allineate per l’inserimento nella sua White List”, ha rilanciato Scott. “Le isole Cayman incontrano, o in alcuni casi superano i più alti standard finanziari globali, condividendo lo stesso rating di alcuni Paesi europei allineati ai parametri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Oggi, ad esempio, scambiamo automaticamente informazioni dettagliate con autorità fiscali di oltre 90 nazioni al mondo”.
Dopo il referendum sulla Brexit, le Cayman hanno aperto un nuovo corso. Potrebbero infatti rivelarsi la piazza d’appoggio più stabile per i fondi europei d’investimento
La “retrocessione” nella Grey List va però al di là di una semplice questione di buona volontà, o di accordi più vantaggiosi con singoli Stati. Nel 2018 la strategia finanziaria dei 28 membri di Bruxelles dovrà fare i conti con i primi effetti della Brexit e il piccolo arcipelago caraibico, in quanto Territorio d’Oltremare britannico a vocazione offshore, rappresenterà la pedina di scambio per trattare con Londra. “Non ci sorprende che le negoziazioni fra Regno Unito e Unione europea intendano mettere le nostre isole sul tavolo di un possibile compromesso”. Questo il commento secco di Paul Byles, ex head of Policy della Cayman Islands Monetary Authority. “Sebbene le isole contino appena 58mila abitanti e la loro economia domestica non valga più di 3 miliardi di dollari -ha evidenziato Jan Fichter, ricercatore dell’Università di Amsterdam che ha curato il primo studio approfondito sul ruolo finanziario delle Isole Cayman (grazie al progetto “Corpnet – Uncovering networks of Corporate Control”)- sono riuscite ad attrarre capitali stranieri per oltre 4.100 miliardi di dollari. Gli assets esterni potrebbero però essere ancor maggiori, non essendoci dati sui trust. Questo fa delle Cayman il maggior centro finanziario offshore del mondo, con assets stranieri che ammontano a più di 1.500 volte il valore della loro economia nazionale, grazie alla presenza registrata di 100mila grandi compagnie, come Tesco, Sainsbury’s o BP. Le isole gestiscono il 60% dei fondi speculativi globali, oltre ad essere il maggior detentore al mondo di titoli americani”. In Borsa hanno un’espressione molto più diretta e incisiva per riferirsi alle antiche Tortugas: “Small place, big money”.
Il problema di fondo sta nel capire quale sia oggi l’effettivo status del piccolo arcipelago: come ha obiettato Andy Burnham, sindaco della Grande Manchester, “non è possibile riconoscere a un Territorio d’Oltremare un seggio permanente al tavolo di trattative della Brexit, scavalcando chi ne ha maggior diritto come noi”. Jeremy Corbin, leader del partito laburista britannico, ha addirittura minacciato di “reimporre un governo diretto sui Territori d’Oltremare, nel caso questi non si adeguassero alle leggi di tassazione del Regno Unito”. Letto fra le righe, il messaggio è chiaro: o le Isole Cayman restano ancorate alle politiche e alle scelte di Londra, o perderanno la loro autonomia. Non c’è spazio per accordi indipendenti con l’Unione europea. In tutta risposta, all’interno del documento di programmazione economica 2018-2019, il governo delle isole ha fatto intendere di essere pronto anche a uno strappo epocale da Londra, qualora la Gran Bretagna puntasse a sacrificare l’autonomia finanziaria dell’arcipelago per ottenere condizioni più vantaggiose nel processo di distacco dall’Ue. Insomma, un arrembaggio dagli esiti molto incerti.
Le tre isole di Grand Cayman, Little Cayman e Cayman Brac, amministrate in loco dal governatore e rappresentante della Regina di Gran Bretagna Helen Kilpatrick, sono state sviluppate sin dagli anni 60 come fossero un’entità statale a sé: non applicando alcuna corporate o income tax, l’arcipelago caraibico è divenuto la sede ideale per l’apertura delle filiali di tutte le multinazionali in fuga dalle tassazioni nazionali, così come dei privati refrattari ai controlli del fisco. Per gli economisti di Investopedia, il più importante sito al mondo per informazioni di carattere finanziario, il loro successo è stato costruito attraverso la semplice richiesta di pagamento di un’imposta annuale per licenza operativa, calcolata sulla cifra del capitale che le compagnie sono tenute a dichiarare. Un centro di finanza offshore attento soprattutto ai grandi flussi di denaro legati al mondo delle imprese, anziché ai soli risparmi dei privati.
Dopo il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016, le Cayman hanno aperto un nuovo corso. Senza Londra nel consesso delle grandi economie continentali, la piazza d’appoggio più stabile per i fondi europei d’investimento alternativi e per i titoli azionari legati al mercato Nord Americano è diventato proprio l’arcipelago scoperto da Cristoforo Colombo nel 1503: non un membro diretto dell’Unione europea, ma neppure un Paese completamente slegato da Bruxelles, per via della sua ambigua dipendenza dalla Corona britannica e, soprattutto, per il fatto di detenere quasi il 20% dei titoli europei. Per l’economista del quotidiano inglese the guardian Jacques Peretti, “la condizione di paradiso fiscale ha avuto senso sino al giorno in cui nessun governo si guardava troppo attorno, ma nel mondo globale è un’arma a doppio taglio. Se le Isole Cayman sono in grado di surclassare gli altri centri internazionali di finanza mettendo alle strette colossi come Facebook (che ha esportato alle Cayman e in altri paradisi fiscali ben 645 milioni di sterline guadagnate nel Regno Unito), far rispettare le regole internazionali è diventato probabilmente più lucrativo che proteggere i depositi di un signore della droga, o magari di qualche società di calcio corrotta”.
Con l’introduzione a partire dal 3 gennaio 2018 del MiFID II, la nuova disciplina che regola i servizi finanziari europei, puntare sugli investimenti di portfolio e diretti assume oggi un valore più strategico rispetto alla tutela dei fondi di deposito. “La stabilità finanziaria del nostro governo -ha osservato il premier delle Cayman Alden McLaughlin- e la crescente forza della economia locale rendono il nostro Paese un’opzione ideale per chiunque cerchi una piazza sicura per i propri investimenti”. Il documento di programmazione economica 2018-2019, presentato lo scorso 27 ottobre dal ministro delle Finanze delle Cayman, è in tal senso uno spartiacque: diversifica l’economia dell’arcipelago puntando sul turismo, sullo sviluppo di Grand Cayman come porto di trasbordo per cargo con generi deperibili, sull’eccellenza delle strutture di cura sanitaria, ma rafforza anche misure di sostegno per i cittadini in difficoltà economiche. Nei prossimi due anni, ad esempio, gli assegni di solidarietà saliranno da 550 a 750 dollari locali, mentre sarà dato impulso anche alle micro imprese grazie al lancio del nuovo Small Business Development centre. “Quando mi sono trasferita a vivere qui cinque anni fa -osserva Irene Corti, giovane connazionale che si occupa di fotografia subacquea per la Deep Blue Images- le isole non erano considerate solo un paradiso fiscale, ma anche naturale. Senza tasse sugli stipendi, si poteva guadagnare bene, ma il costo della vita è altissimo, non ci sono coperture sanitarie pubbliche, le nuove regole sul fondo pensione penalizzano gli espatriati e molti locali versano in condizioni di povertà. Ora si spinge molto su altri settori redditizi rispetto alla grande finanza, in particolare la green energy o l’edilizia, ma tutto è in mano a grandi monopolisti come il miliardario Kenneth Dart, al quale il governo ha permesso di mangiarsi enormi aree del territorio. Le Cayman stanno cambiando pelle, come l’iguana blu simbolo delle isole, ma il vero paradiso attende altrove”.
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