Economia / Attualità
L’azzardo italiano sull’inflazione per sostenere la manovra
Sperare nell’aumento dei prezzi al consumo permetterebbe di rendere il debito più sostenibile. Ma si tratta di una strategia insidiosa perché continua ad affidare i destini dell’economia italiana a soluzioni artificiali e puramente numeriche. L’analisi di Alessandro Volpi
L’Italia deve sperare in una rapida ripresa dell’inflazione. Può sembrare, almeno parzialmente, paradossale riporre fiducia in un aumento dei prezzi al consumo, ma questa pare essere la sola condizione in grado di tenere in piedi la manovra finanziaria. È noto a tutti che il nodo cruciale della discussione con la Commissione europea e delle tensioni sui mercati nei confronti del nostro Paese è costituito dal pesantissimo debito pubblico e dal suo altrettanto gravoso rapporto con il Pil. Rispetto a tale debito, poco potranno gli attuali aggiustamenti discussi in sede europea. Secondo le previsioni contenute nel Def varato dal governo Conte lo stock di debito è destinato a crescere sensibilmente passando dai 2.314 miliardi del 2018 ai 2.416 del 2020; tuttavia le stesse stime governative fissano il rapporto debito/Pil in diminuzione nello stesso periodo dal 131% al 128, registrando così un segnale rassicurante.
In realtà tale miglioramento dipende dalla ipotizzata crescita del Pil che il governo prevede molto ottimisticamente in salita dell’1,5% nel 2019 e dell’1,6% nel 2020. Se una simile, assai improbabile, crescita del Prodotto interno lordo non ci fosse, allora, come accennato la sola speranza si riporrebbe nell’aumento dell’inflazione. La “sostenibilità” del debito pubblico infatti è direttamente legata sia ai tassi di interesse sia all’inflazione. Il rapporto debito/Pil tende a salire quando i tassi sono più alti della crescita nominale dell’economia che è il risultato della somma del Pil e dell’inflazione. Dunque, dal momento che nel prossimo biennio risulta molto improbabile per l’Italia conoscere un incremento del Pil, solo dall’inflazione potrebbero giungere buone notizie: una sua crescita si sommerebbe al Pil stagnante per rendere il debito più sostenibile e per liberare qualche miliardo di euro di risorse anche sul rapporto deficit-Pil. Rispetto a una prospettiva siffatta, tuttavia, esistono varie incognite che tendono a renderla assai illusoria e pericolosa.
In primo luogo la previsione di inflazione contenuta nello stesso Def è già più alta di quella reale; il 2018 si chiuderà assai probabilmente con un’inflazione media dell’1,2%, mentre la Legge di bilancio è costruita per il 2019 e per il 2020 su un’inflazione, al netto dei prodotti energetici importati che ne costituiscono circa la metà, dell’1,4%. Nello stesso Def, peraltro, si stima l’aumento del prezzo del petrolio nel corso del 2019 a 73,8 dollari al barile rispetto ai 54 dollari del 2017, un balzo che appare decisamente eccessivo.
D’altra parte, il medesimo documento economico non attribuisce a misure come il reddito di cittadinanza (al di là delle dichiarazioni “politiche”) una vera capacità di rilancio dei consumi e quindi di azione benefica sull’inflazione mentre è costretto a rilevare il forte impatto negativo sulla domanda aggregata italiana del nuovo protezionismo e dei dazi doganali introdotti da molti Paesi.
C’è poi il tema fondamentale del comportamento della Banca Centrale Europea, il cui compito “istituzionale” è quello di mantenere l’inflazione poco sotto il 2%. Negli ultimi anni, Mario Draghi ha varato politiche monetarie iperespansive perché l’inflazione europea era pressoché inesistente. Dopo una sua parziale ripresa, che l’ha portata dall’1,31% del gennaio 2018 rispetto al gennaio dell’anno precedente al 2,20% dell’ottobre del 2018 rispetto allo stesso mese dell’anno prima, è evidente che la dichiarazione del presidente Draghi di un esaurimento della strategia della liquidità facile, la cui scadenza è stata fissata a fine 2018, diventa decisamente credibile.
A spingere l’inflazione verso l’alto, nei prossimi mesi, potrebbero contribuire anche le nuove scelte di bilancio della Francia di Macron, che ha annunciato un aumento salariale e altri significativi incentivi, tali da portare il rapporto deficit-Pil oltre il 3% in un Paese in cui il debito pubblico, pur rimanendo al 97% del Pil, è cresciuto di 500 miliardi di euro in sette anni ed è in termini quantitativi il più grande d’Europa, pari a 2.320 miliardi nel 2018. Ma se un aumento “europeo” dell’inflazione oltre il 2% spingerà la Bce a limitare i “rifornimenti” praticamente gratuiti alle banche perché comprino titoli del debito e a non fare più acquisti sul mercato secondario dei titoli pubblici dei Paesi “a rischio”, allora i tassi di interesse, e il costo degli interessi, saliranno e la sostenibilità del debito pubblico italiano sarà gravemente messa a repentaglio. Sperare nell’inflazione pare la strada meno dolorosa per l’Italia che, per decenni si era abituata a cancellare una parte dei costi dei propri debiti con l’aumento dei prezzi, ma risulta assai insidioso perché continua ad affidare i destini dell’economia italiana a soluzioni artificiali e puramente numeriche.
Università di Pisa
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