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Ambiente / Inchiesta

Antibiotici: quando produrli può far male. Gli impatti ambientali della filiera e le sfide per la salute globale

© Alexander Raths, iStockphoto.com

L’antibiotico resistenza è considerata un pericolo per la specie umana grave quanto i cambiamenti climatici. E in questa partita gioca un ruolo decisivo l’inquinamento connesso all’uso e allo smaltimento dei farmaci. La nostra inchiesta, dall’India alla Cina

Tratto da Altreconomia 218 — Settembre 2019

Le regioni polari sono uno dei pochi ecosistemi ancora incontaminati della Terra. Per questo David Graham, professore dell’università di Newcastle, non si aspettava di trovare in Artico geni di batteri resistenti agli antibiotici moderni. Graham e il suo gruppo di ricerca avevano scelto Svalbard, nel Nord della Norvegia, per studiare come si comportano i batteri in ambienti non alterati dalle attività degli esseri umani. Nei campioni di terreno prelevati nel 2013 hanno trovato un gene resistente identificato per la prima volta in un paziente di un ospedale in India nel 2007. In meno di sei anni il gene è migrato dove esseri umani e antibiotici praticamente non ci sono.

Come sia successo ancora non si sa con certezza. Nello studio pubblicato lo scorso aprile, i ricercatori hanno ipotizzato che potrebbe essere arrivato lì attraverso la migrazione di un uccello o di una persona. Ciò che sembra chiaro, invece, è che i geni della resistenza si muovono velocemente anche verso luoghi che si considerano incontaminati. La presenza di antibiotici in ambiente è principalmente associata all’utilizzo eccessivo che se ne fa in ambito umano e veterinario, ma esiste anche una terza fonte di dispersione di questi farmaci: gli scarichi delle industrie che li producono. Fino ad oggi i piani di contrasto all’antibiotico resistenza si sono concentrati su misure che puntano a ridurre l’utilizzo eccessivo e sbagliato di questi farmaci, con scarsa attenzione verso il problema dei residui di antibiotici (e di tutti i medicinali in generale) che provengono dagli scarichi domestici, ospedalieri e industriali. A maggio di quest’anno, il più grande studio realizzato sull’inquinamento da antibiotici, ha documentato la presenza di questi farmaci in larga parte dei fiumi di tutto il mondo. Gli scienziati dell’Università di York, nel Regno Unito, hanno misurato la presenza di antibiotici in 165 fiumi di 72 Paesi del mondo. Dalle analisi è emerso che il 65% dei fiumi è contaminato e in 111 casi la concentrazione è superiore alla soglia considerata sicura. Soprattutto nelle zone in cui mancano o non funzionano adeguatamente le infrastrutture per il trattamento dei rifiuti e delle acque reflue. Le condizioni peggiori sono in Asia e in Africa dove i ricercatori hanno trovato valori fino a 300 volte superiori agli standard di sicurezza. Il rischio è che le alte concentrazioni possano stimolare i batteri a sviluppare la resistenza agli antibiotici, rendendo questi farmaci inutili contro infezioni batteriche anche letali.

Oggi l’antibiotico resistenza è considerata un pericolo per la specie umana grave quanto i cambiamenti climatici. È un fenomeno che esiste in natura: i batteri producono spontaneamente antibiotici per sconfiggerne altri, i “nemici”. Per difendersi, alcuni di questi microbi sviluppano la capacità di resistere agli antibiotici. L’utilizzo smodato -e sbagliato- di antibiotici da parte degli esseri umani favorisce il moltiplicarsi delle resistenze perché i farmaci eliminati dal corpo finiscono in ambiente dove proliferano microrganismi di ogni tipo che si difendono dall’attacco di questi composti chimici. Il problema per la salute umana si manifesta quando le resistenze si trasmettono a batteri portatori di malattie e gli antibiotici non sono più efficaci per curare malattie come polmoniti, bronchiti, infezioni delle vie urinarie.

Secondo un recente studio pubblicato sul “The Lancet Infectious Diseases” e finanziato dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, l’Italia è il Paese europeo con la più alta mortalità per antibiotico resistenza. Ogni 100mila abitanti, 18 muoiono per questa causa, quasi il triplo della media europea. Dai dati dell’Observatory of Economic Complexity, nel 2017 l’Italia è stato il primo Paese importatore mondiale di antibiotici (l’11% del totale) e allo stesso tempo il terzo esportatore.

Gli scienziati dell’Università di York hanno misurato la presenza di antibiotici in 165 fiumi di 72 Paesi del mondo. Dalle analisi è emerso che il 65% dei fiumi è contaminato

Ma il mercato è sempre più dominato dall’Asia. “Cina e India sono tra i maggiori produttori al mondo di principi attivi, cioè le materie prime, e di farmaci finiti”, spiega ad Altreconomia Giulia Vettore dell’European Public Health Alliance (EPHA), un consorzio di associazioni europee che si occupa di temi legati alla sanità pubblica. “Molti dei prodotti realizzati in Cina e India vengono esportati in Europa e Stati Uniti -continua- dove vengono lavorati e venduti”. Nel 2017 le esportazioni globali di antibiotici hanno raggiunto un valore di 10,5 miliardi di dollari. Un terzo di questi prodotti vengono dalla Cina, per un valore di 3,4 miliardi di dollari, e il 7,2% dall’India. Il 32% delle esportazioni cinesi e il 27% di quelle indiane sono destinate a Europa e Stati Uniti. Non solo, considerando il commercio degli antibiotici più utilizzati, le penicilline, Cina e India da sole esportano il 54% di questi prodotti, per un totale di 961 milioni di dollari.

In entrambi i Paesi, cittadini, ricercatori e giornalisti hanno denunciato casi di inquinamento legati alla produzione di antibiotici. L’industria farmaceutica indiana, con i suoi 2,5 milioni di impiegati, gioca un ruolo importante nella produzione globale di farmaci, grazie anche ai bassi costi di manodopera che hanno portato molte industrie europee e statunitensi a delocalizzare lì la loro produzione. A Hyderabad, città a Sud dell’India, è presente uno dei più grandi poli farmaceutici industriali del mondo. Qui l’inquinamento da antibiotici è un problema molto grave. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Infection nel 2017 ha riscontrato che nell’area industriale e nelle acque del fiume Musi che attraversa la città, le concentrazioni di antibiotici e antimicotici sono altissime. Per uno di questi, il fluconazolo usato per le infezioni da funghi, i ricercatori sono convinti si tratti della concentrazione più alta mai registrata in ambiente per un medicinale. La causa è lo smaltimento improprio dei reflui delle industrie. Anil Dayakar, attivista dell’Ong ambientalista Gamana, da anni denuncia l’impatto della produzione farmaceutica di Hyderabad: “Il suolo, l’aria e l’acqua sono inquinati a tal punto che ormai non sono più utilizzati per nessuna delle attività degli abitanti della zona. Gli scarichi industriali entrano nella catena alimentare e hanno effetti su esseri umani e animali”. Oltre 10 milioni di persone vivono nella città e quasi mezzo milione abitano nelle vicinanze del polo farmaceutico: “A livello internazionale la domanda di questi farmaci è in forte aumento, per questo il governo indiano ha anche autorizzato l’espansione del polo industriale”. L’obiettivo principale è diventare indipendenti dalla Cina, da dove vengono importati circa l’80% dei principi attivi utilizzati per produrre i farmaci antibiotici. “Ogni tentativo di mettere in discussione questa decisione è stato bloccato. Solo una decisa presa di posizione da parte dei Paesi importatori potrebbe cambiare le cose” aggiunge Dayakar. La fondazione olandese Changing Market (changingmarkets.org) ha provato a documentare la situazione anche in Cina. Raggiunta la provincia del Guangdong, sulla costa della Cina Sudorientale, gli attivisti hanno osservato la situazione ambientale precaria, ma non hanno potuto prelevare campioni di acqua per fare le analisi né visitare le fabbriche. “In Cina è quasi impossibile fare questo tipo di indagini -spiega Natasha Hurley, campaign manager di Changing Market- a causa del forte controllo presente sul territorio”.

Un contadino al lavoro, immerso fino alle ginocchia nelle acque del fiume Chinna Vagu (India) gravemente inquinato da scarti farmaceutici – © changingmarkets.org

Ripercorrere l’intera filiera dei farmaci, dalla produzione alla vendita non è semplice. Durante questo processo diversi soggetti, anche appartenenti a Paesi e aziende diverse, possono essere coinvolti. In questo intreccio può succedere che uno stabilimento indiano produca un farmaco con i principi attivi provenienti da uno stabilimento cinese. A sua volta l’azienda indiana fornisce il farmaco prodotto a un’azienda europea che si occupa del confezionamento. Chi ha provato a tracciare questo percorso è stata Changing Market nel report “Superbugs in the supply chain” del 2016, dove ha denunciato le opacità del viaggio che gli antibiotici compiono da Paesi come Cina e India verso l’Europa. “Gli anelli di questa catena globale che formano la filiera del farmaco sono coperti da segreto -afferma Natasha Hurley-. Fin quando le aziende non saranno obbligate a rivelare le origini delle materie prime con cui sono prodotti i farmaci che vendono, sarà impossibile risalire l’intera catena di produzione”. Incrociando i dati di vari database pubblici, l’associazione ha cercato di disegnare i rapporti tra le aziende ma questo è stato quasi impossibile quando più di due Paesi erano coinvolti: “Sappiamo che ci sono fabbriche cinesi che forniscono principi attivi ad alcune società indiane. Sappiamo anche che molte aziende indiane vendono farmaci in Europa e Stati Uniti, ma non possiamo dire con certezza se i principi attivi contenuti nei farmaci indiani destinati al mercato occidentale vengano dalla Cina”. Anche per questo, nonostante l’inquinamento di quelle aree sia dimostrato da analisi scientifiche, è difficile risalire con certezza ai responsabili di questa situazione. L’Italia è tra i Paesi che hanno rapporti commerciali con l’India e la Cina. Nel report vengono descritti scambi tra fabbriche cinesi e indiane con aziende italiane. Una di queste è l’indiana Aurobindo, principale produttrice di principi attivi a livello mondiale. Gli stabilimenti di Hyderabad producono più di 500 tonnellate al mese di principi attivi, una parte dei quali arrivano nella filiale italiana e messi in commercio nel nostro Paese. L’ertapenem è uno degli ultimi antibiotici a essere stato autorizzato al commercio in Italia dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa – agenziafarmaco.gov.it), un medicinale utilizzato per curare polmoniti e infezioni ginecologiche. Secondo i documenti fotografici e le analisi delle acque fatte da Changing Market, gli stabilimenti di Aurobindo avrebbero contribuito all’inquinamento della zona attraverso i loro scarichi. Accuse respinte dall’azienda che ad Altreconomia ha dichiarato di gestire stabilimenti a “zero scarico liquido”, cioè dotati di un processo industriale che non prevede il rilascio di acque reflue. Precisazioni che Aurobindo dichiara di aver già fatto in passato per contestare le affermazioni di Changing Market, ma che la fondazione olandese afferma di non aver mai ricevuto. Un’altra industria indiana al centro delle accuse di inquinamento è Orchid Chemicals. Tra le aziende che hanno avuto rapporti commerciali con la fabbrica c’è l’italiana L.C.M. Trading, che pochi anni fa avrebbe interrotto le importazioni di principi attivi. Ancora oggi aziende come la Deafarma, di recente acquisita dalla multinazionale Azelis, importerebbero antibiotici dalla Orchid Chemicals. Da quanto riferito da Azelis, e come riportato nel sito web della società indiana, Orchid Chemicals ha ottenuto la certificazione di ISO 14001 per i suoi sistemi di gestione ambientale.

Le acque reflue dell’area industriale di Guddapatharam che si riversano nel lago Isnapur. Sullo sfondo una fabbrica di antibiotici dell’indiana Aurobindo – © changingmarkets.org

Dalla cinese Zhuhai United Laboratories invece arriva all’italiana Old Pharma l’amoxicillina, principio attivo alla base di antibiotici come l’Augmentin, utilizzato per la cura di diversi tipi di infezioni. Il report di Changing Market riporta le accuse che le comunità locali e le autorità municipali avrebbero fatto all’azienda cinese, responsabile di scaricare i reflui nel fiume vicino. Accuse di cui il gruppo Old Pharma, contattata da Altreconomia, dichiara di non essere a conoscenza. L’attuale normativa che regola la produzione farmaceutica è carente in materia ambientale. I regolamenti statunitensi ed europei, identificati nelle cosiddette buone pratiche di fabbricazione (Gmp), si concentrano sulla sicurezza dei farmaci per gli esseri umani e animali, ma non obbligano le aziende ad attuare misure di salvaguardia ambientale durante il processo di produzione dei farmaci. Lo conferma anche l’Aifa ad Altreconomia: “I controlli degli ispettori si limitano alla verifica del rispetto delle Gmp. Un produttore di principio attivo in un Paese estero deve comunque rispettare le Gmp per poter esportare medicinali in Unione europea, ma non è tenuto ad applicare le normative europee in materia di tutela ambientale”. La valutazione dei rischi ambientali è competenza delle autorità locali. In questo modo è possibile mettere in commercio nei nostri Paesi farmaci prodotti altrove che non rispettano i nostri stessi standard ambientali di produzione.

A livello europeo l’inquinamento connesso all’uso e allo smaltimento è regolato dalla valutazione di rischio ambientale (Era). Prima che ogni farmaco venga messo in commercio è necessario stabilire quanto possa persistere in ambiente e valutarne la sua potenziale tossicità. Ma secondo Lloyd Evans, membro dell’associazione europea Health Care Without Harm, anche in questo caso le mancanze sono numerose: “L’Era viene applicata soltanto ai nuovi medicinali immessi in commercio a partire dal 2006, tralasciando tutti quelli entrati sul mercato prima. Inoltre, nella valutazione non vengono considerati i rischi connessi al rilascio degli scarichi in ambiente da parte delle aziende produttrici di principi attivi”. Al momento non si conosce la percentuale dei più di 3mila principi attivi presenti sul mercato che è stata sottoposta a valutazione di rischio ambientale. Secondo la Federazione Europea delle Associazioni e delle Industrie Farmaceutiche, circa la metà dei medicinali, a causa dell’elevata presenza in ambiente o della potenziale interferenza con il sistema endocrino, richiederebbe questa valutazione.

Natasha Hurley, campaign manager della fondazione olandese Changing Market che ha provato a documentare la situazione degli impatti ambientali della filiera degli antibiotici anche in Cina – © changingmarkets.org

Lo scorso marzo, la Commissione europea ha pubblicato l’Approccio Strategico riguardo all’impatto ambientale dei farmaci, un documento programmatico con cui intende affrontare il problema dell’inquinamento farmaceutico. Atteso da quattro anni, il documento riconosce che gli scarichi di impianti di produzione di antibiotici di Paesi terzi, tra cui alcuni fornitori di prodotti destinati al mercato europeo, possono contribuire allo sviluppo e alla diffusione dell’antibiotico resistenza a livello mondiale. L’Approccio suggerisce anche alcune possibili azioni che gli Stati possono attuare per contrastare il problema: promuovere processi di fabbricazione più rispettosi per l’ambiente, migliorare i criteri di valutazione del rischio ambientale, ridurre i rifiuti farmaceutici, promuovere lo sviluppo di farmaci “ecologici”. Seppure considerato un passo in avanti, il documento della Commissione Europea è stato fortemente criticato da sei delle principali associazioni europee che da anni denunciano i problemi legati alla presenza di farmaci in ambiente. In una lettera inviata alla Commissione ad aprile denunciano la poca ambizione delle proposte: “L’Approccio strategico – spiega Evans – non spiana la strada verso l’adozione di misure in grado di prevenire l’importazione di principi attivi da Paesi con norme ambientali più deboli di quelle in vigore nell’Unione Europea”. Le associazioni chiedono misure urgenti tra cui l’inserimento di criteri ambientali nelle buone pratiche di fabbricazione e la definizione di limiti di residui di farmaci nelle acque. E soprattutto una totale trasparenza della filiera di produzione del farmaco, il primo passo per stabilire le responsabilità di tutti gli attori internazionali coinvolti.

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