Economia
Imprese a perdere
Sono arrivati anche in Italia i fondi d’investimento che comprano aziende in crisi per “spolparle” e lasciarle poi fallire. Il caso Agile-Eutelia
Dietro, però, si nascondono problemi: fondi italiani e stranieri dopo aver rilevato sotto costo società con l’acqua alla gola, le “spolpano”attraverso opache operazioni finanziarie, lasciando solo debiti e licenziamenti. È un mercato speculativo delle aquisizioni, che sta crescendo parallelamente a quello ufficiale, alimentato dall’enorme numero di società in difficoltà. La compra-vendita delle aziende in crisi, per avviarne la ristrutturazione, si chiama “turnaround”.
Chi opera in quest’ambito è, molto spesso, un fondo d’investimento. Negli Stati Uniti d’America è un settore miliardario, in cui si muovono società altamente specializzate, che una volta acquisito il controllo hanno in genere due opportunità davanti a loro: rilevare la gestione dell’azienda in crisi, salvarla e rimetterla più tardi sul mercato guadagnandoci, oppure agire da veri e propri fondi-spazzino, vendendo il patrimonio pezzo per pezzo, e poi portarla alla liquidazione.
In Italia, invece, rappresenta una novità assoluta: per cultura e convenienza, nel nostro Paese i fondi hanno puntato fino a tre anni fa decisamente verso le aziende sane per moltiplicare i ritorni (capital gain). Ma la recessione, e poi la bassa crescita, ha reso attraente investire nelle aziende con problemi. La cosa è ancor più significativa considerando che, il numero di nuove partecipazioni dei fondi nel capitale di rischio di aziende di tutti i settori -dai prodotti per l’industria ai beni di consumo, dalle società di Ict (Information and Communication Technology) alle utilities, alla farmaceutica- erano crollate, tra il 2008 e il 2009, del 59 per cento (da 159 a 65 operazioni), per un valore di acquisto di 3,6 miliardi di euro. Nello stesso periodo, secondo i dati dell’Osservatorio Pem (Private equity monitor), la compravendita di aziende con problemi economici o di liquidità ha raggiunto il picco, salendo dal 6 al 16 per cento sul totale delle nuove acquisizioni, per scendere all’8 per cento nel 2010.
Negli ultimi tre anni (2008-2010), cioè, si concentra il 55 per cento delle circa 40 operazioni di questo tipo effettuate a partire dal 2004, complice una generalizzata precarietà degli assetti finanziari delle società e le restrizioni imposte dal sistema bancario alle concessioni di credito. Dati che restano comunque al di sotto delle aspettative che ha generato la riforma del diritto fallimentare del 2006, che facilita l’ingresso dei fondi nelle aziende in concordato preventivo o in amministrazione straordinaria.
Una ricerca dell’Università di Castellanza fa il punto sulle enormi potenzialità del segmento: su 6.704 imprese con volumi di ricavi tra i 20 e i 200 milioni di euro -alla portata dei grandi fondi stranieri e di quelli italiani di dimensioni minori-, le imprese con un assetto finanziario precario, risultano 2.550, pari al 40 per cento. E di queste, ben 277 non sono in grado di pagare gli interessi alle banche.
Con risultati a volte brillanti: la Favini ad esempio, era un’impresa storica nel settore delle carte speciali che si era fortemente indebitata ed era stata messa in liquidazione. È ripartita grazie all’intervento del fondo Orlando Italy, e oggi è leader in Europa, con 117 millioni di fatturato.
Ci sono poi gli speculatori di professione, affaristi abili a intrufolarsi nella zona grigia tra la resurrezione e il fallimento delle aziende. Vengono acquistate perché “anche se l’azienda è avviata al fallimento, due o tre asset tangibili o intangibili da recuperare ci sono sempre -conviene Conca-. Il marchio, ad esempio, o la rete commerciale, e gli immobili”. O, addirittura, i crediti vantati nei confronti dei committenti. In questo mercato da ultima istanza, per definizione poco trasparente –“un fondo non dirà mai quanto debito ha usato per comprare una società”, osserva Adriano Bianchi, direttore della società di consulenza Alvar&Marsal Italia-, si muovono con voracità presunte intraprese interessate alla speculazione tout court. Ed è qui che fioriscono i fatti di cronaca. Come il caso Agile, la vicenda che ha creato maggiore scalpore, anche per le conseguenze sociali, è quella relativa alle operazioni condotte in Italia dalla Omega -network controllato, attraverso la società Libeccio, da due fondi inglesi con sede a Londra-.
Omega opera nel settore delle telecomunicazioni, e tra le altre attività rileva partecipazioni in società in via di liquidazione o anche rami d’azienda di società solide, con molte commesse pubbliche, ma alle prese con difficoltà congiunturali come l’Eutelia. Nel 2009, Omega ha acquisito Agile, il ramo informatico di Eutelia per 96mila euro. Agile, oltre ai debiti, scaricati dalla casa madre, vantava anche trenta milioni di crediti nei confronti di importanti committenti pubblici. Pochi mesi dopo la cessione, Omega annunciò 1.200 licenziamenti. Nel frattempo, il fondo erano riuscito a distrarre in pochi mesi dalle casse della Agile oltre dieci di milioni di euro, con lo scopo di ripianare debiti di altre aziende controllate. Saranno i commissari incaricati dell’amministrazione straordinaria a ricostruire la “spietata spoliazione” della Agile, che arriverà a un passo dal fallimento con 162 milioni di euro di debiti e quasi 2mila lavoratori finiti per strada. Con l’acquisto di Phonemedia, colosso dei call center con oltre 7 mila addetti, e di decine di altre piccole e medie società, Omega creerà un complesso groviglio di scatole cinesi tra cui è difficile districarsi. L’obiettivo e i risultati sono sempre gli stessi: appropriarsi dei crediti e degli immobili delle aziende, finché è possibile, non pagare gli stipendi, abbandonare al momento giusto le società al loro destino, spesso drammatico. Del gruppo Phonemedia è già fallita la piemontese Raf (2mila lavoratori), e l’amministrazione giudiziaria ha chiesto il fallimento delle altre controllate.
Anche le energie alternative diventano terra di conquista. La Competence Emea, azienda di telecomunicazioni che occupa in Italia oltre 1.200 addetti negli stabilimenti di Cassina de’ Pecchi (Milano) e Marcianise (Caserta), è finita nel mirino di speculatori senza scrupoli.
Nel luglio 2010, la Competence è stata venduta dalla multinazionale Jabil al fondo di investimento Mercatech, un private equity italo-statunitense, specializzato nel rastrellare quote di aziende in crisi e con all’attivo transazioni in Nord America. Per rilevare la Competence, il fondo presenta un piano che apparirà subito ambizioso, con la promessa di investire 175 milioni di euro per riconvertire l’azienda di contract manifacturing alla promettente produzione di panneli fotovoltaici. Gli investimenti non arriveranno, in compenso il fondo avrà il tempo di mettere le mani su 50 milioni di euro messi a disposizione dalla vecchia proprietà e sugli incassi milionari delle commesse.
In sei mesi il nuovo management Competence, nominato dal fondo, accumulerà un debito molto alto nei confronti dei fornitori (un ammanco stimato in 90 milioni di euro) e giungerà a un passo dal fallimento, mettendo a rischio i posti di lavoro.
A marzo 2011, solo l’intervento del governo e uno scandalo spingeranno la Jabil a rientrare precipitosamente nella proprietà e a saldare i debiti, salvando l’azienda. I sindacati scopriranno così che il fondo Mercatech è coinvolto anche nella vicenda della Isi, Italia solare industrie, 370 lavoratori, rilevata con l’ impegno di produrre pannelli solari al posto di frigoriferi. La Mercatech controllava il 30 per cento del pacchetto azionario, attraverso la holding Energia Futura: “Il piano della Mercatech, d’intesa con alcuni dirigenti italiani della Jabil, dopo aver rilevato Competence ed Electrolux, era quello di mettere le mani sul redditizio mercato degli incentivi per i pannelli fotovoltaici, senza spendere un euro, e speculare sugli immobili”, denunciano i sindacati.