Approfondimento
Il valore della memoria
Franco La Torre e Viviana Matrangola hanno perso uno dei genitori, ucciso da sicari della mafia negli anni 80. Oggi ne coltivano l’impegno —
Anni e anni di indagini, e una verità che fatica ad affiorare. È quanto accomuna molte storie di vittime di mafia, alcune delle quali sono al riparo dall’oblio anche grazie all’impegno civile, che le rendono patrimonio collettivo. Storie di grande attualità, nonostante raccontino del coraggio di persone scomparse ormai da anni. Come quella di Pio La Torre, che dedicò la vita a riscattare la sua terra e il popolo siciliano dalla condizione di arretramento e vassallaggio e che per questo si trovò davanti Cosa nostra, che lo assassinò a Palermo il 30 aprile 1982, insieme al suo autista, Rosario Di Salvo. Due anni dopo, il 31 marzo 1984, furono altri mandanti ed esecutori ma la stessa mano ad uccidere Renata Fonte, politica pugliese colpevole di aver difeso fino all’ultimo una riserva naturale dalla speculazione edilizia. Sono due delle molte testimonianze di uomini e donne che dal 16 al 29 luglio prossimi animeranno Ole 2012, rassegna sul ruolo delle società civili nel contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. “Missione difficile, perché si tratta di diffondere la cultura antimafia e i mezzi per contrastare il crimine organizzato in un’Europa che ancora ritiene che la mafia sia un problema italiano”, spiega Franco La Torre, figlio di Pio ed oggi presidente di Flare.
“Prima ti appuntano una medaglia sul petto, poi si scordano che esisti”, dice Viviana Matrangola, figlia di Renata Fonte. Che nel 1984 era assessore alla Cultura e alla Pubblica istruzione del comune di Nardò (Le), eletta nel 1982 nelle file del Partito repubblicano italiano, e venne uccisa a colpi di pistola da due sicari all’uscita di un consiglio comunale, a pochi passi da casa. Aveva 33 anni. “La prima rivendicazione dell’omicidio fu da parte delle Brigate Rosse -racconta la figlia-, ma era un tentativo di depistaggio. Non si escluse nessuna pista ma fu subito chiaro che le ragioni erano da ricercarsi tutte nel suo impegno politico”. A far diventare scomoda Renata per gli interessi della malavita organizzata fu la sua ferrea opposizione alla speculazione edilizia nel parco naturale di Porto Selvaggio, in Salento. Riserva protetta, istituita ufficialmente con la legge regionale 6/2006, oggi figura anche nell’elenco dei cento “Luoghi del cuore” del Fai. Alcune testimonianze rivelano che qualche giorno prima della morte, nelle aule comunali, la donna avrebbe ricevuto l’avvertimento di non opporsi alla delibera che prevedeva l’inserimento nel piano regolatore di 70 ettari di terreno agricolo attigui al cuore del parco. La sua fermezza nel rifiuto e nel perseguire i suoi ideali le sarebbe costata la vita. “Non è mai emerso chiaramente che si trattasse di mafia -racconta la figlia Viviana-, ma nella sentenza di ergastolo di Antonio Spagnolo, primo dei non eletti e succedutole in consiglio comunale, si legge: ‘Spagnolo dà ordine di uccidere per risentimento personale, cui si aggiunge un interesse più vasto che coinvolge altri personaggi che vedono in quella poltrona l’unico mezzo per raggiungere obiettivi altrimenti non realizzabili. È strumento consapevole di una trama di interessi spregevoli’”.
Che si fosse trattato di delitto mafioso fu subito chiaro anche ai familiari di Pio La Torre. “Anche in questo caso -racconta il figlio Franco- arrivare alla sentenza è stato un lungo percorso: più processi e poi la riunificazione con gli altri ‘omicidi politici’ (quelli di Michele Reina, segretario provinciale di Palermo della Dc, assassinato nel 1979, e Piersanti Mattarella, ucciso nel 1980 mentre era presidente della Regione Sicilia, ndr), fino alla sentenza che ha riconosciuto colpevoli e condannato gli esecutori materiali e i componenti della cupola di Cosa nostra, quali mandanti. Le istruttorie hanno incrociato servizi segreti e politica, senza riuscire a ottenere un quadro probatorio certo, che consentisse di indagare in altre direzioni, seppur, come gli inquirenti stessi hanno scritto, questo quadro probatorio lascia intravedere scenari più ampi”. Nel giugno 2012 la Procura di Palermo ha riaperto l’indagine sull’omicidio La Torre. In particolare, i pm vogliono approfondire una circostanza precisa: l’ipotesi che 5 professori universitari avrebbero dovuto studiare le carte che l’ex segretario regionale del Pci aveva detto di volere affidare loro qualche giorno prima di morire. La Torre non fece in tempo a consegnare i suoi appunti: documenti che, sosteneva, avrebbero fatto chiarezza su misteri come quello della strage di Portella della Ginestra e la “rete di rapporti tra mafia e Stato”.
Sindacalista e deputato del Pci, Pio La Torre ha dedicato la sua vita alla lotta dei braccianti siciliani contro lo sfruttamento da parte dei ricchissimi proprietari terrieri: erano gli anni Cinquanta, quando le terre venivano occupate dai lavoratori senza diritti riuniti sotto lo slogan “La terra a tutti”. In seguito, la sua attività politica è stata improntata al contrasto della mafia: si deve, ad esempio, all’allora deputato La Torre la proposta di legge “Disposizioni contro la mafia”, che di fatto integrò la legge 575/1965 e introdusse un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis. Condusse anche battaglie civili, organizzando una massiccia raccolta di firme per la campagna universale a favore dell’appello di Stoccolma, lanciato dal Movimento internazionale per la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche negli anni Cinquanta, fino all’ultima, negli anni Ottanta, contro l’installazione dei missili Nato nella base militare di Comiso, nel ragusano. Lo stesso scalo oggi è un aeroporto civile, intitolato a Pio La Torre ma al centro delle cronache perché ancora chiuso: pronto dal 2007, costato 36 milioni, non è ancora operativo perché nessuno vuole pagare i controllori di volo.
All’inizio, l’omicidio La Torre venne rivendicato dai Gruppi proletari organizzati.
A Franco e Viviana, la notizia della morte del padre e della madre arrivò per telefono. Lui fu avvertito da una voce sulla linea riservata agli interventi degli ascoltatori di RadioBlu, l’emittente romana che dirigeva all’epoca: “Ricordi confusi”, dice. Lei sente ancora una sensazione di “grande freddo” nelle ossa, la voce del padre -che allora viveva in Belgio- al telefono, subito dopo la casa invasa da parenti e amici. Ha perso sua mamma quando aveva dieci anni, ma ricorda perfettamente che, nonostante “il suo vortice di impegni, non faceva mai mancare il dolce fatto da lei e i fiori a tavola. A Nardò per moltissimi anni -dice- non si è voluto ricordare l’omicidio della mamma, perché considerato troppo scabroso e perché ricordare significava porsi delle domande. Ancora oggi -aggiunge- c’è chi rifiuta che in paese ci sia stato il primo delitto politico-mafioso del Salento e che Renata Fonte sia riconosciuta vittima di criminalità mafiosa”. Per la memoria, molto ha fatto l’associazione Libera. Prima ricordare “era un fatto episodico, da parte della società civile. Oggi è un impegno costante”, spiega La Torre. “Se faccio un calcolo, ho vissuto la mia vita più a lungo senza di lei che con lei”, riflette Viviana, cui di sua mamma mancherà “sempre, più di tutto, il suo sorriso, il sapore delle sue carezze”. Lui ancora oggi, quando pensa a suo padre, lo ascolta mentre gli dice: “Non penserai mica di andare a lavorare al Formez (il centro studi e formazione della Cassa del Mezzogiorno, ndr) Franco, mentre io sto facendo la battaglia per chiuderla, la Cassa del Mezzogiorno?”. —