Ambiente / Varie
Il tempo di una generazione
Prodotto interno lordo, desertificazione e consumo di risorse non rinnovabili: cronaca dei 35 anni che hanno stravolto il Pianeta, a un mese dall’avvio di COP21, la Conferenza ONU sul clima in programma a Parigi dal prossimo 30 novembre. Tutti i dati in una infografica
Un bambino che nasce oggi trova un mondo molto diverso da quello nel quale i suoi genitori, nati negli anni 80, sono stati accolti. È vero, a partire dal 1980 l’Indice di sviluppo umano globale -calcolato dalle Nazioni Unite sulla base di indicatori quali reddito, speranza di vita alla nascita e accesso all’istruzione, va da 0 a 1- ha fatto un balzo in avanti, passando da 0,559 a 0,702 (nel 2013), ma è innegabile che questo sviluppo abbia avuto un prezzo: abbiamo compromesso il Pianeta, rincorrendo la crescita del prodotto interno lordo globale (che nel 2014 ha superato i 75mila miliardi di dollari), senza guardarci intorno.
Il 13 agosto del 2015 è stato l’Earth Overshoot Day, cioè il giorno in cui l’umanità ha “consumato” tutte le risorse disponibili per l’anno in corso, andando ad intaccarne lo stock e accumulando troppa CO2 in atmosfera.
Da un mese ormai stiamo vivendo “oltre le possibilità del Pianeta”, perché questo mostra il dato elaborato dagli istituti di ricerca Global Footprint Network (www.footprintnetwork.org) e New economics foundation (www.neweconomics.org).
Il bambino del 2015 è nato col fardello di un debito. Iniziato quando bambini erano i suoi genitori: il primo Earth Overshoot Day cadde il 31 dicembre nel 1986. I nostri figli nascono in un mondo che sarebbe sostenibile solo se un anno durasse appena otto mesi.
Facciamo un esempio dei possibili problemi legati al consumo eccessivo di risorse. Guardiamo alla curva dei prelievi idrici a livello globale: nel 1980, l’uomo “beveva” 2.700 chilometri cubici di acqua all’anno, nel 2015 si stima che ne utilizzi ben 4.700, quasi il doppio.
E a febbraio 2015 Olcay Unver, deputy director of Land and Water division alla FAO, ha lanciato un allarme: “al 2050 circa il 60% della popolazione globale potrebbe vivere in condizioni di stress idrico”, che significa “avere problemi di approvvigionamento di acqua e non avere acqua a sufficienza per soddisfare le proprie esigenze”. Il 2050 è l’anno in cui i nostri figli avranno la nostra età oggi. A maggio, il Club di Roma -un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro che affronta con metodo scientifico i problemi dell’umanità, e nel 1972, pubblicando “I limiti dello sviluppo”, aprì il dibattito sulla finitezza delle risorse sul Pianeta- ha diffuso un rapporto dedicato alle foreste tropicali, che nel 1980 occupavano una superficie di 1.270 milioni di ettari.
Il titolo è evocativo: “On the Edge”, che si può tradurre sul limite, o in posizione precaria. Perché -come evidenzia il report- oggi restano appena 700 milioni di ettari di foreste primarie “non intaccate” dall’uomo. Dai primi anni Ottanta ce ne siamo mangiate 4,9 milioni di ettari all’anno. Come? Ad esempio, per fare spazio alla coltivazione di olio di palma, che tra il 1980 e il 2012 è decuplicata, passando a 5 a 50 milioni di tonnellate.
“Le foreste sono un simbolo dei problemi relativi al grande tema del futuro, che non è del Pianeta ma solo dell’umanità -racconta ad Altreconomia Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia e segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia-. La scomparsa delle foreste primarie ci parla dell’estinzione di massa della biodiversità, ci ricorda l’incremento delle superfici agricole che avviene nelle aree tropicali, e dell’insostenibilità di filiere agroalimentari che non rispettano l’agroecologia, con grandi distese intensive che hanno bisogno di fertilizzanti (secondo il rapporto FAO “World fertilizer trends and outlook to 2018”, il consumo mondiale potrebbe superare i 200 milioni di tonnellate nel 2018, un dato del 25% superiore rispetto a quanto registrato nel 2008, ndr), agenti di sintesi che provocano immissione di azoto, che a sua volta modifica la composizione dell’atmosfera”.
La comunità scientifica ha definito nove “planetary bounderies”, confini planetari, e riguardano le variabili che abbiamo fin qui introdotto (dallo stato dell’atmosfera alla trasformazione del suolo), ma anche la perdita di biodiversità, l’inquinamento atmosferico, i cambiamenti climatici.
Superati questi confini, diventa difficile sapere con certezza che cosa accadrà, e ancora di più gestire la situazione. Nel 1981, ad esempio, eravamo ancora in tempo per restare entro un limite accettabile di concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Nel gennaio di quell’anno, infatti, il dato misurato era di 339,36 “parti per milione” (ppm). Vent’anni dopo, nel gennaio del 2001, si era già arrivati a 370,52 ppm. Ad aprile del 2015, il dato misurato è di 401,3 ppm, e in media nel 2014 la concentrazione della CO2 in atmosfera è stata -per la prima volta- sopra le 400 parti per milione.
Era una “soglia psicologica”, perché quella indicata dalla scienza è un’altra: “Nell’ambito di studi paleoclimatici è stato possibile risalire ad altre epoche storiche in cui nella composizione chimica dell’atmosfera la CO2 ha superando le 350 ppm, e ciò ha causato profonde modificazioni del ciclo del carbonio/ossigeno, con estinzioni di massa e un radicale mutamento negli ecosistemi” sottolinea Bologna, che dal 1998 cura l’edizione italiana del rapporto mondiale “State of the World” del Worldwatch Institute.
Dopo aver superato la soglia “scientifica” e anche quella “psicologica”, siamo in cammino verso quella di 450 ppm: è il limite che potrebbe permetterci di contenere entro i 2°C il riscaldamento globale. Se il tasso di crescita della concentrazione di CO2 in atmosfera resta quello degli ultimi trent’anni, però, sarà scavalcato quando i nostri figli usciranno dall’adolescenza. Allora potranno iscriversi a un corso di laurea in Ingegneria della resilienza, oppure a Medicina, per seguire le lezioni di Adattamento dell’organismo al cambiamento climatico. In Italia, la temperatura media è stata nel 2014 di 1,39°C superiore alla media registrata tra il 1971 e il 2000. Se è nato nel 2015 e nel Nord Italia, vostro figlio dovrà stare attento alle punture della zanzara tigre e dei pappataci, insetti che trasmettono la chikungunya e la leishmaniosi canina. “Sono i primi segni di malattie tropicali nel nostro Paese” racconta il climatologo Luca Mercalli, presidente della Società metereologica italiana (www.nimbus.it). Fino a pochi anni fa, questi insetti erano presenti solo a Sud dell’Appennino, ma l’Italia -e tutto il mondo- sono profondamente cambiati negli ultimi trentacinque anni. A livello globale, intanto, ogni mese le temperature medie globali segnano un nuovo record: il 2014 è stato l’anno più caldo della storia dell’umanità da quando sono presenti dati affidabile (1880), e il 2015 -per come sta andando- lo supererà.
È vero, in questo periodo siamo stati capaci di dimezzare la mortalità media infantile in tutto il mondo (da 90 a 46 ogni mille nati), ma -almeno nei Paesi ricchi- ogni figlio si misura con un mondo sempre più diseguale. Dagli anni Ottanta, la crescita della disuguaglianza nella distribuzione del reddito è del 26% in Olanda, del 24,4% in Gran Bretagna (24,4%), del 16,2% negli Stati Uniti d’America, del 15,8% in Germania e del 10,3% in Italia.
Abbiamo saccheggiato il Pianeta e perso di vista il bene comune. —
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