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Il supporto di McKinsey al governo, gli interessi privati e le preoccupazioni pubbliche

© Mika Baumeister - Unsplash

Il ministero dell’Economia si avvale della multinazionale della consulenza per la “finalizzazione” del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Una scelta problematica quando invece “abbiamo bisogno di enormi rassicurazioni di prevalenza dell’interesse pubblico su tutto il resto”, scrive il prof. Paolo Pileri

Siamo un Paese debole e impaurito. Da un lato la scure delle aziende farmaceutiche che dettano legge e davanti a morti e tragedie sono ciniche, ascoltando solo quelli che pagano di più e subito. Non cedono i brevetti e lasciano morire interi paesi. Da un altro lato ci sono i big della tecnologia che aumentano a dismisura il loro potere e hanno ficcato tutti i nostri desideri dentro uno smartphone tenendoci in pugno a colpi di notifiche e velocità. La pandemia ci ha definitivamente fiaccati e disorientati.

Circondati da queste sottrazioni di sovranità, avremmo bisogno di una politica che ci protegga e protegga quei valori e principi etici “impagabili” e non negoziabili. Invece dall’unico varco di fuga si sono levate ombre e governo ci ha colto di sorpresa affidando a una delle più grandi società profit di consulenza aziendale (l’americana McKinsey) un incarico per il piano “Next generation Eu”, ovvero il piano per il futuro del nostro Paese. Si è subito alzato un legittimo coro di preoccupazioni e di proteste anche perché nessuno ha spiegato a nessuno prima di fare.

Incalzato dalla stampa, il governo si è allora dato da fare per precisare -il 6 marzo 2021- che del Recovery plan si occupa lui e solo lui, e McKinsey “non è coinvolta nella definizione dei progetti del Pnrr”, dando solo un “supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. Sono frasi in parte convincenti, ma in parte lasciano aperta la porta del legittimo dubbio. Covid-19, Dad, limitazioni di libertà ci hanno molto fiaccato in questo anno. Gli interessi privati o le speculazioni varie non si sono certo smorzate tra una vaccinazione e l’altra.

L’arringa della parlamentare europea Manon Aubry (grande lezione di politica: grazie che esisti) alla presidente della Commissione, durante la quale ha sventolato i contratti mezzi cancellati con le aziende farmaceutiche, è la dimostrazione che gli interessi privati sono senza scrupoli e pronti a infilarsi nei varchi delle emergenze pubbliche, quando le difese del sistema istituzionale calano. Capisco quindi la preoccupazione e finanche l’indignazione di chi, io tra loro, salta sulla sedia alla notizia che il governo chiede aiuto a una società di consulenza globale che certo non è una società no-profit e che può creare dipendenza e influenzare le scelte di governo verso settori di dubbio interesse collettivo.

In questo stordimento pandemico, abbiamo bisogno di trasparenza e cambiamento, abbiamo bisogno di strappi e discontinuità con un certo modello di sviluppo che certamente questo tipo di scelte consulenziali non interpreta alla perfezione. In questo Paese ci sono enti, agenzie, centri di ricerca e università dove non mancano donne e uomini che sentono l’appartenenza ai valori pubblici come una missione. Sentono lo slancio verso il servizio allo Stato, ancor più nei suoi momenti di difficoltà. Non è il caso di svilirli ora.

La relazione di credibilità tra cittadini e la grande filiera delle alte istituzioni pubbliche passa anche dalle scelte di ingaggio che i governi fanno. Siccome tutti noi arriviamo da una storia dove le incursioni “privatiste”, i conflitti di interesse, le lunghe mani degli interessi privati sulle cose pubbliche (vedi la sanità), le privatizzazioni di beni e aziende municipali ci hanno presentato conti salati, sottrazioni di sovranità e molte delusioni, non trovo solo legittimo il dubbio sollevato da molti sulla inopportunità di questa mossa, ma trovo che sia un guizzo di sano contraddittorio che benedico perché mantiene in vita la democrazia.

L’ultimo bilancio depositato in Camera di commercio dalla succursale italiana di McKinsey risale al 1994

Credo sia stato inopportuno avvalersi di una multinazionale della consulenza globale in questo momento storico incerto (e su un argomento così delicato) dove abbiamo bisogno di enormi rassicurazioni di prevalenza dell’interesse pubblico su tutto il resto. Averne difeso la scelta usando lo scudo dei paletti e delle regolette di ingaggio non dirada la nebbia, ma anzi accredita quell’atteggiamento molto amministrativo e poco visionario che ci toglie l’aria e che conosciamo come burocrazia. Se certe cose sono inopportune in un certo momento storico e in determinato contesto sociale, non possono diventare legittime in forza di motivazioni burocratiche, come la solita urgenza o l’affidamento sotto soglia.

Siamo un Paese debole e impaurito, ma per fortuna non ancora del tutto silente. Per fortuna seguiamo l’istinto del poeta: “Nulla è sicuro, ma scrivi” (Franco Fortini). Il governo non svilisca queste voci ma si compiaccia perché sono espressione di sensibilità, attenzione e maturità civili. C’è un desiderio di cittadinanza che ha sete di cambiamento e ha imparato, suo malgrado, a sospettare perché teme il futuro si riempia ancora di trappole. E allora vigila. E fa bene. Sappiamo tutti che il Paese non ha più bisogno della classe politica dell’altro ieri, spocchiosa e incolta, insensibile ai beni comuni e all’ambiente, pronta a chinarsi ai profitti e agli interessi di alcuni. Per fare questo spesso ha svilito e offeso il settore pubblico mettendo sugli altari soggetti privati che non hanno fatto gli interessi di tutti. Il dissenso a quella consulenza sta chiedendo al governo di investire di più e meglio nel coinvolgimento dei cittadini e nel dare fiducia al comparto pubblico ricordandogli il suo senso di servizio allo Stato e agli interessi collettivi che nessun consulente globale garantisce nel suo DNA.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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