Interni
Il sistema della cultura
Aprire ai privati non tutela la funzione pubblica del patrimonio culturale, spiegano Baia Curoni e Montanari —
"L’attuale modello delle concessioni è stato fatto importando alcune pratiche anglosassoni, ma è superato -spiega il professor Stefano Baia Curioni, vicepresidente del Centro di ricerca ‘Art, Science and Knowledge’ dell’Università Bocconi-: riguarda attività considerate ‘aggiuntive’, che però diverrebbero centrali se immaginiamo un modello di offerta integrato. Che tenga conto, cioè, dell’insieme del patrimonio culturale”. Che cosa intenda, Baia Curioni lo spiega con un esempio: “La ‘Camera degli sposi’ del Mantegna, a Mantova, è un gioiello di 35 metri quadri, ed è potenzialmente un blockbuster: ha un altissimo potenziale di valorizzazione. È inserita all’interno di un palazzo di 30mila metri quadri con 12 chiostri, il Castello di San Giorgio. In una piazza molto bella, piazza Sordello, in una incantevole città medievale, Mantova. In più, si affaccia su un lago, le cui rive andrebbero protette. Oggi la ‘Camera degli sposi’ viene visitata ogni anno da 400mila persone. Ma il potenziale di Mantova, al momento, è frenato dalla presenza di centri decisionali eterogenei: lo Stato, il Comune, il Demanio, la Chiesa”. Questi soggetti, invece, dovrebbero agire di concerto. Quella delineata da Baia Curioni, che per conto di banca Intesa ha curato il rapporto “La gestione del patrimonio artistico e culturale in Italia”, è una riforma che non risponda -necessariamente- al concetto di privatizzazione. “Serve rivedere le concessioni attuali, istituire organismi di concertazione tra l’interesse pubblico e quello privato. Ed è necessaria una ridefinizione del ruolo del ministero, che oggi ha un’enorme gamma di compiti e poche risorse. Serve un decentramento delle funzioni”.
Aprire semplicemente ai privati, com’è stato fatta a Monza, non risolve due problemi: la tutela della funzione pubblica del patrimonio culturale, e del rapporto con il fruitore. L’attuale regime di concessione rischia di favorire i siti che già sono capaci di attrarre pubblico, “e non il patrimonio diffuso. In questo modo -spiega Baia Curioni-, i costi sono pubblici, mentre i benefici privati sono catturati da posizioni di rendita”. Che per il docente della Bocconi sono, ad esempio, quelle dei venditori abusivi di piazza dei Miracoli (a Pisa, 3 milioni di visitatori all’anno) o dei centurioni del Colosseo. Che può esser preso ad esempio anche per delineare i vantaggi per un eventuale gestore privato, che scegliesse di organizzare una mostra extra all’interno del sito: basta moltiplicare il numero dei visitatori, circa 4 milioni, per due euro, il costo aggiuntivo che il gestore potrebbe “caricare” su ogni biglietto, per generare un incasso aggiuntivo di 8 milioni di euro. In questo modo, però, non si spostano turisti verso le altre aree dei Fori imperiali, che registrano -ogni anno- meno di un decimo di paganti. Un privato risponde ai propri azionisti, e non valorizzerebbe il patrimonio diffuso, ma solo i “poli attrattori”. Rischiando di acuire un problema che già c’è: i primi dieci “beni” per numero di visitatori sono concentrati in 5 città, Roma, Venezia, Pompei (Na), Firenze e Genova. E anche il confronto sui numeri con gli altri Paesi europei non regge: “Dicono che gli Uffizi (1,5 milioni di visitatori all’anno, ndr) siano sotto utilizzati -spiega lo storico dell’arte Tomaso Montanari-, rispetto al Louvre (8,5 milioni, ndr). Ma il museo fiorentino è ospitato in un edificio del Cinquecento: gli spazi non sono paragonabili al museo parigino, né il numero di opere per metro quadro. Inoltre, in Italia ci sono cento città, e tanti ‘piccoli Uffizi’. Non vederlo, significa disconoscere la storia d’Italia”. Il punto di vista dello storico dell’arte (Montanari) non è lontano da quello dell’economista (Baia Curioni), e per spiegare i rischi di una privatizzazione prende ad esempio la Reggia del Carditello, a Caserta. La proprietà, formalmente, è pubblica, del Consorzio di bonifica del Basso Volturno. L’ente, però, è fortemente indebitato. Proprio nei confronti di Intesa Sanpaolo. “La Reggia è dei creditori, e Intesa non l’ha difesa -racconta Montanari, che ha potuto visitare il monumento per constatarne l’abbandono e il degrado-. Adesso andrà all’asta”.
La prossima udienza è fissata per il 12 luglio prossimo: “Il ministero probabilmente eserciterà il diritto di prelazione, e pagherà 10 milioni di euro ad Intesa. Proprio quel privato che, secondo la retorica, più di ogni altro dovrebbe aiutare lo Stato nel sostenere il patrimonio artistico del Paese. Eppure questo ‘bene simbolo’ è stato lasciato a se stesso. Perché è degradato, ed è in un territorio degradato. Il business, col Carditello, non c’è. E per questo la banca non se ne fa di niente”. Montanari è anche l’estensore del “Manifesto sul patrimonio storico-artistico e archeologico” promosso da Tq (www.generazionetq.org), un movimento di lavoratori e lavoratrici della conoscenza trenta-quarantenni. Si legge: “Il patrimonio di proprietà pubblica deve essere mantenuto con denaro pubblico: esattamente come le scuole o gli ospedali pubblici. […] sono dunque inammissibili le alienazioni di sue parti a privati. Esso non deve essere privatizzato nemmeno moralmente o culturalmente attraverso prestiti, noleggi, appalti gestionali esclusivi o cessioni temporanee che di fatto ne sottraggono alla collettività il governo, socializzandone le perdite […] e privatizzandone gli eventuali utili”. Il motivo è semplice: “Il suo fine non è quello di produrre reddito”, perché “il patrimonio storico e artistico della nazione NON è il petrolio d’Italia”. Né dev’essere utilizzato per operazioni di marketing, come fa ad esempio il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che dietro un affresco del Vasari nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio vorrebbe cercare un quadro di Leonardo, “La battaglia di Anghiari”: “È insensato trivellare Vasari sperando che sgorghi il petrolio di Leonardo”. Analisi complesse, che hanno poco a che spartire con la ricetta suggerita ad ottobre -in occasione del convegno di Intesa Sanpaolo- dal banchiere Mario Ciaccia. Secondo l’ex ad di Biis, nel frattempo diventato viceministro dello Sviluppo economico, “non è difficile immaginare che su un orizzonte di 5 anni il fatturato strettamente riferibile ai beni culturali raggiunga i 3 miliardi di euro annui”. Come? Basta trasformare i musei in bazar: fare in modo che ci sia “un esborso medio di 30 euro per ciascuno dei 100 milioni di visitatori”, più che decuplicando il dato attuale (2,7 euro). —