Cultura e scienza / Opinioni
Il Risorgimento e l’invenzione di una nazione etnica
Con le lotte per l’Unità d’Italia si afferma l’idea di un Paese accomunato da un solo sangue e un’identica stirpe. Mai esistita prima. La rubrica di Tomaso Montanari
Se ci chiediamo perché la Costituzione fonda la nazione non sul sangue ma sul paesaggio, la risposta è che sono state le mani dei pittori di paesaggio, in gran parte stranieri, a creare l’immagine dell’Italia: contribuendo in modo decisivo a definire l’identità stessa degli italiani. Cosicché quando oggi parliamo sinteticamente di “Italia”, nella mente e nel cuore degli amici e interlocutori stranieri si accende “qualcosa” che è più in debito con Nicolas Poussin che con Garibaldi, un’idea più legata a Claude Lorrain che non a Mazzini.
Essere così univocamente e distintivamente legati al loro paesaggio (e cioè a una natura passata, per così dire, attraverso la storia: “Un ambiente passato attraverso l’uomo”, secondo una felice definizione dello storico dell’arte Cesare Brandi) insegnò agli italiani che la loro “identità” nazionale era di fatto una “diversità”: perché il paesaggio italiano è, in realtà, un palinsesto di paesaggi tra loro profondamente diversi. Lucio Gambi, il maggior geografo italiano contemporaneo, ha scritto che “l’Italia, lungo i 1.200 chilometri dalla catena alpina al mar d’Africa squaderna una varietà di condizioni fisiche quante se ne trova in altre regioni della Terra su un arco di meridiano di tre o quattro migliaia di chilometri”.
Se è questa la diversità naturale di fronte alla quale reagiscono i pittori, essa è anche il correlativo oggettivo (o, se preferite, la metafora materiale) che rende visibile l’enorme diversità culturale determinata dalla storia in un Paese plurale. Sappiamo che questa identità felicemente debole, fondata sulla comune appartenenza a un territorio trasformato dalla storia (cioè, appunto, un paesaggio); questo modo pacifico, mite, inclusivo e plurale di essere e sentirsi italiani, subì una drastica trasformazione a partire dai primi dell’Ottocento.
Per arrivare al traguardo dell’unità politica d’Italia, le generazioni del Risorgimento inventano una “nazione come comunità naturale, fatta di legami parentali e di patrimonio territoriale, un retaggio che le appartiene da tempi immemorabili” (Alberto Mario Banti). È il momento in cui, al posto del paesaggio (cioè dell’arte e della storia) si affaccia il sangue (e cioè la natura come dimensione puramente biologica, irriflessa e incontrollabile). Nella sua celebre poesia dedicata al Marzo 1821 (pubblicata nel 1848) Alessandro Manzoni esalta un’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor”. Se nel Seicento, Giulio Cesare Capaccio aveva preso atto, facendone una ragione di vanto, che la sola Napoli “è nata da mille sangui”, due secoli dopo si vagheggia un’intera Italia nata da un solo sangue: geneticamente pura.
Questa brusca virata culturale, funzionale a favorire il riscatto dal dominio straniero e l’unificazione del Paese, assume però inevitabilmente l’aspetto di una polemica contro gli stranieri in quanto tali: “O stranieri -continua Manzoni- nel proprio retaggio / torna Italia, e il suolo riprende / o stranieri, strappate le tende / da una terra che madre non v’è”. E così, insieme all’unità politica (1861) nasce anche una nazione per sangue e stirpe che in Italia non era mai esistita prima: una nazione etnica, insomma. Una nazione finalmente unita politicamente ma che rischia, fin dai suoi primi passi, di non fare i conti con la storia. O, peggio, di usarla ideologicamente: non l’invenzione di una tradizione, ma l’invenzione di un sangue.
Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
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