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Il processo è un lusso
Punire severamente un delinquente incallito è buon senso. Ma oggi, anche in Italia, il principio vale solo per i più deboli, anche se colpevoli di reati non così gravi, perché non possono permettersi una difesa adeguata
Talune riforme della giustizia, che pur procede dal principio d’uguaglianza, assumono quegli aspetti paradossali delle manovre economiche che invece di colpire ceti privilegiati hanno come obiettivo i più deboli. Tralasciando per carità di patria la contingenza politica e le distorsioni del conflitto d’interessi, consideriamo gli effetti di recenti leggi che, ispirate a modelli stranieri, incontrano sentimenti diffusi inasprendo automaticamente le pene per i reati di maggior allarme sociale (non sempre i più gravi in concreto), commessi dai recidivi. Che un delinquente incallito debba essere punito più severamente di altri, è principio ragionevole e perciò la recidiva è considerata circostanza aggravante. È più opinabile se la pena debba punire il colpevole più per quello che è, che per quello che ha fatto.
Dagli anni 90 negli Usa sono state approvate leggi che prevedono, con la terza violazione, la condanna del colpevole all’ergastolo (25 anni effettivi). Three strikes and you’re out (tre colpi e sei eliminato), si è detto in gergo alludendo al baseball. La Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi nel caso limite di un soggetto recidivo, condannato alla pena del carcere a vita per il furto di tre mazze da golf, non ha dichiarato incostituzionale la norma applicata. Da allora, leggi di analogo impianto, che impongono severi minimi di pena, hanno proliferato non solo negli Usa; il Regno Unito ha per primo seguito l’esempio. Si accoda l’Italia, ove dal 2005 la legge Cirielli vieta di considerare prevalenti attenuanti e impone un aumento della metà o talora di due terzi della pena per i soggetti recidivi.
Sebbene Corte di Cassazione e Corte Costituzionale abbiano interpretato le nuove norme non in senso automatico, ritenendo che il giudice ha la discrezionalità di considerare la recidiva non come mera presenza di precedenti condanne, ma come reale espressione della maggiore pericolosità del condannato (salvo che per alcuni gravi delitti dove l’aumento è obbligatorio), la concreta applicazione della legge porta sistematicamente all’inflizione di pesanti condanne nei confronti di soggetti deboli e marginali. Sono immigrati, piccoli spacciatori di strada, tossicodipendenti dediti al furto o rapine che del reato hanno talora solo il nome. Il “pacchetto sicurezza” del 2009 prevede analoghi rigidi aumenti per determinate circostanze e con gli stessi effetti di sistema. In un Paese dove esiste un problema di effettività della pena, un processo dilatato su tre gradi di giudizio per un arco di tempo spesso decennale, con la più vasta serie di reati che offendono interessi della comunità puniti con pene solo virtuali, quando non falcidiate da indulti o amnistie o prescrizioni, il pugno di ferro si dirige verso imputati minori, che difesi e giudicati frettolosamente sono i soli a dover scontare le loro condanne.
Secondo le statistiche, in Italia circa i 4/5 dei condannati devono scontare meno di 5 anni, mentre il tasso di effettività della pena (rapporto tra anni scontati e comminati in sentenza) si aggira intorno al 40%. A dispetto della spinta repressiva, la stessa Cirielli abbrevia i termini di prescrizione per una notevole serie di reati, principalmente quelli dei colletti bianchi (soli 7 anni e mezzo per punire i corrotti ed oltre 20 per la rapina di due ladruncoli).
Si fa presto a individuare chi va e rimane in galera. La stessa opinione pubblica, che pur approva in grande maggioranza le leggi severe, se messa di fronte all’iniquità di casi concreti riduce drasticamente il consenso, come dimostrano i sondaggi effettuati. Negli Usa si è così richiesta l’abrogazione o la riforma delle leggi del “terzo strike” e nel 2005 l’Inghilterra ha abrogato l’automatico ergastolo per i recidivi di gravi reati.
Un aspetto evidenzia una ragione a conservare meccanismi pur riconosciuti iniqui. La stampa americana l’ha denunciato apertamente: è la tentazione di liberare il sistema penale dal suo sovraccarico, perché quei meccanismi scoraggiano l’accesso alla giustizia anche per chi si proclama innocente. La discrezionalità tolta ai giudici, costretti ad applicare pene con minimi di legge obbligatori anche in casi di poco rilievo, si sposta nelle mani dei procuratori che usano l’arma della contestazione di reati con pene fisse per imporre patteggiamenti. La minaccia delle conseguenze automatiche del giudizio in caso di condanna costringe gli imputati che non possono schierare abili avvocati a dichiararsi colpevoli, per ottenere una pena minore, rinunciando al processo. In tempi di crisi, sono la grande maggioranza e non solo i più emarginati. Il processo è un lusso per pochi. Non solo si è infranto il principio della pena adeguata al reato, ma la punizione include anche aver rivendicato il proprio diritto al processo. —
* Sostituto procuratore generale a Genova