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Il Messico e i desaparecidos del ventunesimo secolo

Dal 2006, nel Paese sono scomparse circa 27mila persone. Gli ultimi 43, a fine settembre, sono studenti di una scuola rurale nello stato del Guerrero. La loro desaparicion forzada ha portato in piazza migliaia di persone. Che chiedono giustizia, perché il fenomeno non può essere considerato "casuale", come spiega il libro "Ni vivos ni muertos". L’intervista all’autore, Federico Mastrogiovanni

Martedì 22 ottobre, dopo le 18, la piazza principale di Città del Messico si è riempita di gente. Almeno 50mila persone erano di fronte al Palazzo di governo, per chiedere la “restituciòn con vida”, la liberazione, dei 43 giovani studenti della Escuela Normal Rural de Ayotzinapa, sequestrati a fine settembre nello Stato del Guerrero. La scritta composta con le luci in un angolo dello Zocalo era eloquente: “Fue el Estado”, “responsabile è lo stato”.
Alla stessa ora, la stessa richiesta veniva avanzata in oltre 80 città, in Messico e in tutto il mondo, da Helsinki a Nuova Delhi. Se queste manifestazioni di massa ci lasciano stupiti, è solo perché negli ultimi anni siamo stati distratti: -dal 2006- circa 27mila in Messico sono scomparse, vittime di “sparizione forzata”. Nel Paese, ormai, “il crimine è fuori controllo”, come ha titolato nei giorni scorsi The Economist. Lo “scudo” mediatico della guerra al narcotraffico, portata avanti dagli ultimi presidenti della Repubblica –Felipe Calderón ed Enrique Peña Nieto– nascondeva una politica di sistematico terrore nei confronti della popolazione.
I 43 studenti del Guerrero sono solo la punta di un iceberg, e dopo il 26 settembre, quando sono stati attaccati e sequestrati, secondo le ricostruzioni da parte di forze di polizia contigue a gruppi della criminalità organizzata, il Paese non si è più fermato.

Quel giorno, gli studenti della scuola rurale protestavano contro la privatizzazione dell’istruzione e raccoglievano fondi per ricordare l’anniversario del 2 ottobre, il massacro di studenti di Plaza Tlatelolco, avvenuto a pochi giorni dell’apertura delle Olimpiadi del 1968. Un evento che alcuni strati della società civile messicana si ostinano a non voler dimenticare, perché per la prima volta nel Paese si praticava il terrore di Stato. La repressione della manifestazione, alla presenza anche della cronista italiana Oriana Fallaci, segnò l’inizio della fine per il Paese democratico uscito dalla Rivoluzione, inaugurando la pratica repressiva della sparizione che avrebbe portato il Messico a contare -fino agli anni Ottanta- oltre millecinquecento desaparecidos.
“A 46 anni dal massacro del 2 ottobre possiamo impedire che si ripetano le bugie e l’impunità per governi, funzionari e complici“ ha scritto lo storico Adolfo Gilly sul quotidiano La Jornada. Nelle note finali del suo libro più bello sulla rivoluzione messicana, “La revolución interrumpida”, c’è scritto che è stato terminato, nel 1971, nel carcere de Lecumberri, dove lui era rinchiuso, prigioniero politico di quella stagione.  

La vicenda degli studenti della Escuela Normal Rural de Ayotzinapa ci mostra però che a differenza di altri Paesi dell’America Latina, dall’Argentina al Cile, all’Uruguay, in Messico il problema delle “sparizioni forzate” non è oggi materia di analisi storica. È un presente, invece, ben descritto in un libro, “Ni vivos ni muertos”, dal giornalista italiano Federico Mastrogiovanni, uscito in Messico per Grijalbo.
Frutto di tre anni di lavoro, è un’inchiesta ma anche un reportage (e un documentario, girato a quattro mani con Luis Ramírez), perché il lavoro per questo libro ha portato Mastrogiovanni -che da cinque anni vive e lavora in Messico- a viaggiare attraverso una dozzina di stati del Paese, dalla frontiera Sud del Chiapas a quella Nord, di Tijuana, tutto per riuscire a spiegare che cosa rappresentino, oggi, le desapariciones forzadas. Che -durante il sessennio in cui il Paese è stato governato da Felipe Calderon, dal 2006 al 2012- hanno riguardato almeno 27mila persone.

“Per la stampa messicana, ogni caso era a sé, isolato, frutto di una violenza generalizzata, senza nome e senza senso. Per me, ciò era impossibile: una delle considerazione principali che abbiamo fatto, con Luis Remirez, avviando questo lavoro, è che quello della desaparicion forzada non può essere un fenomeno casuale, perché in tal caso non potrebbe avere queste dimensioni” spiega Federico Mastrogiovanni, seduto al tavolo di un caffè-libreria, a Città del Messico.

“Ci siamo resi conto, analizzando in profondità il fenomeno, che certe pratiche sono legate a luoghi dov’è forte la presenza di risorse naturali. Ad esempio, alla Cuenca de Burgos, territorio tra gli Stati di Tamaulipas, Nuevo León e Coahuila, nel Nord-est, dove ci sono importanti riserve di idrocarburi e dove, dal 2007 in poi, le sparizioni hanno conosciuto una crescita verticale” racconta Federico.
“L’idea di fondo -spiega- era riuscire a capire e a spiegare, a partire dalle condizione delle vittime, chi beneficiasse di questa situazione di violenza”. Una delle tesi di “Ni vivo ni muertos”, che trova conferma nelle recenti riforme legislative messicani in materia energetica, è che a guadagnare siano “le aziende che in certe zone del Paese puntano a sfruttare petrolio, shale gas, anche attraverso la pratica del fracking, acqua e le altre risorse ambientali”. “Quando tu generi violenza, il desplazamiento forzato della popolazione, e un clima di terrore, difficilmente si crea opposizione nei confronti dei megaprogetti. Nello Stato di Tamaulipas (nella zona del Golfo del Messico, ricca di giacimenti di idrocarburi, ndr) ci sono zone intere dove non vive più nessuno. Dentro un clima di violenza generalizzata, e pertanto più ‘accettata’, diventano vittime anche attori politici di opposizione, leader comunitari, vittime che però non si percepiscono come tali all’interno di un clima di violenza. Si tratta, però, di omicidi o desapariciones forzadas mirate”, eventi in cui hanno -necessariamente- un ruolo apparati dello Stato.

È, del resto, la definizione stessa del delitto di desaparicion forzada a dircelo, dato che nei Trattati internazionali viene descritto come quel sequestro di persona che veda un intervento da parte dello Stato a qualsiasi livello, per azione o omissione.
“In Messico, in molti casi, l’intervento è diretto, e le desapariciones sono operate fisicamente da agenti dello Stato, da soldati, forze polizia o funzionari pubblici (come nel caso degli studenti di Ayotzinapa), ma spesso si agisce anche per omissione: è molto frequente, ad esempio, che chi va a presentare denuncia dopo un sequestro venga invitato dal pubblico ministero a tornare a casa, che non ne vale la pena. Quella è una omissione, che può essere fatta da un funzionario corrotto, colluso o semplicemente impaurito. In ogni caso, lo Stato è responsabile” dice Mastrogiovanni.

Il viaggio di Federico si chiude nella primavera del 2014, quando diventa evidente che “otto anni di violenza, preparavamo le riforma energetica, la privatizzazione delle risorse del sottosuolo, che contraddice la Costituzione rivoluzionaria ma è un passo obbligato da parte del governo messicano, imposto dalla relazione con Stati Uniti e Canada nell’ambito del North America Free Trade Agreement. Come dimostrano le esperienze di multinazionali del petrolio e del gas in giro per il mondo, anni di violenza, militarizzazione, ‘pulizia sociale’, precedono sempre all’ingresso delle aziende in nuovi mercati. Questa lente ci aiuta a leggere gli ultimi anni in Messico” sostiene Federico.
“Zone importanti strategicamente, come la Cuenca de Burgos o il Golfo di Veracruz (Nuove Leon, Tamaulipas, Tabasco, Veracruz), le più ricche di riserve di petrolio e gas, sono sotto il controllo totale di un gruppo paramilitare. Eppure, durante gli anni del sessennio di Calderon, a parte proclami e la cattura di alcuni capi, questi ‘signori’ continuano a controllare le rispettive zone, tenendo al proprio servizio gruppi paramilitari formati da fuoriusciti delle forze speciali del governo messicano. Mi chiedo: come mai gli Stati Uniti d’America, che ci hanno abituato a costanti interventi militari in aree di crisi, non hanno fatto niente? L’ipotesi, è che questi soggetti stiano facendo parte di un lavoro sporco considerato necessario”.

La chiave di lettura di tutto ciò che accade diventa il terrore, che è anche nel sottotitolo del libro di Mastrogiovanni: “La desaparición forzata en México como estrategia de terror”
“Negli anni 70-90, durante la guerra sucia, tracciare l’identità ‘tipo’ della vittima di sparizione forzata era facile: o erano appartenenti alla guerriglia, a movimenti radicali e studenteschi, o familiari o amici di queste persone. Oggi le vittime hanno un profilo apparentemente casuale, e questo aumenta l’incidenza del terrore, perché tutti siamo possibili vittime. Possiamo però fare una categorizzazione di alcuni profili: la maggioranza delle vittime sono giovani ragazzi maschi, tra i 18 e i 30 anni, di classe bassa e medio bassa. Secondo alcuni, in determinate aree del Paese è in quella classe d’età e sociale che è più facile che si crei scontento, che appartenenti a quella fascia d’età entrino a far parte di movimenti antagonisti. Seminando il terrore in quelle fasce, si cassano così sul nascere alcune opportunità”.

Uno dei capitoli del libro è dedicato a declinare il significato della parola ausencia, assenza. Federico spiega che cosa significhi, nella vita quotidiano, la convivenza con una persona assente, quali le possibili reazioni (che arrivano al tentativo di cancellazione o anche alla colpevolizzazione della persona scomparsa). “Ho voluto spiegare quant’è vasto questo mare di dolore che si genera, che non ha una sola faccia e sconvolge per sempre la vita di una persona. Uno dei protagonisti, Rosendo Radilla, aspetta da quarant’anni il ritorno del padre”.

Uno psicologo, intervistato da Mastrogiovanni, ha fatto un calcolo, moltiplicando il numero delle vittime per quello dei loro parenti, e della cerchia di amici più stretti di questi ultimi. Il risultato è che 3,5 milioni di persone, in Messico, sono più o meno direttamente relazionate con una caso di desaparicion forzada. Tutte queste persone vengono colpite direttamente, quindi siamo di fronte a un problema di massa, “ a un disegno totalmente razionale” spiega Federico. Che nell’ultimo capitolo del libro traccia un parallelo tra il Messico e la Germania nazista, dove la pratica della sparizione forzata venne “codificata”, nel 1941, con un decreto conosciuto come Nacht und Nebel, Noche y Niebla in spagnolo, notte e nebbia in italiano. “L’obiettivo è generare un terrore che paralizzi. I nazisti lo spiegano: non si devono creare martiri; non si deve dare ai familiari la possibilità di avere pace”. Il terrore è, dev’essere permanente.

“Uno dei temi centrali, ritrovato in tante delle storie che ho ricostruito per il libro, è la criminalizzazione delle vittime e di chi -come i loro familiari- cerca giustizia” dice Mastrogiovanni, ed è anche in questo che -secondo l’autore di “Ni vivos ni muertos”- è possibile leggere un parallelo con la situazione italiana, con i casi di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, dove parti dello Stato si rendono carnefici, invece di difendere la popolazione e il territorio si rendono carnefici.

Un’altra similitudine “riguarda il ruolo dei genitori, perché sono quasi sempre i genitori e in particolare le madri a portare avanti la ricerca, a vincere il terrore, unirsi, riconoscersi. Ad alzare la testa ed esigere giustizia dallo Stato. È un cammino doloroso, che costa anni solo per potersi mettere in piedi. Molte nemmeno denunciano la scomparsa dei figli, ma quando vincono il terrore, non le ferma più nessuno. Penso a Rosario Ibarra De Piedra, che ho intervistato per 4 ore e poi non ho inserito nel libro: dopo 40 anni è ancora sul piede di guerra, alla ricerca della giustizia con il Comité Eureka, sulla cui pagina web (comiteeureka.org.mx) campeggia la scritta “Vivos los llevaron! Vivos los queremos!”.
Un programma politico, lo stesso dagli anni Settanta.
 
Nessuno può permettersi di dire a una madre che la sua ricerca è illegittima -sostiene Federico-. Solo in Italia, com’è risultato evidente nel caso Aldrovandi, ci si è permessi di insultare la madre di una vittima nella sua ricerca di giustizia”.

L’impeto è l’unico modo per affrontare una condizione descritta con parole vere e terribili da Elena Poniatowska, scrittrice ed intellettuale messicana, autrice del libro “La noche de Tlatelolco”: "La morte uccide la speranza, ma la desaparición è intollerabile perché anche se non uccide non ti permette di vivere".
Questa frase sta scritta su un muro del "Museo de la memoria indomita", a Città del Messico, dove sono circondate da fotografie in bianco e nero. Di persone mai ritornate. Gli indomiti e le indomite che hanno aperto questo spazio in Calle Regina, nel bel centro storico pedonalizzato della città, sono i familiari di oltre millecinquecento persone -dirigenti e attivisti politici e delle organizzazioni studentesche; contadini e maestri- scomparse nel nulla durante gli anni la guerra sucia, la risposta violenta delle istituzioni al rischio di destabilizzazione politica da parte di forze extraparlamentari.

Al Museo Federico ha presentato il suo libro, a fine agosto 2014. Il filo rosso si tende, e oggi abbraccia (non lega) anche un giovane giornalista italiano, che da freelance ha scelto di mettere a rischio la propria incolumità, lavorando nelle zone più difficili del Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti (quasi un’aggressione al giorno nel 2013, secondo la Ong Articulo 19), per aiutare il Messico (che ama) a conoscersi un po’ meglio. A comprendere le cause di un fenomeno che non può essere accettato passivamente. Non più, come dimostrano in tutto il Paese le manifestazioni che esigono la riapparizione degli studenti di Iguala. Possibilmente, ancora in vita, come chiede anche una petizione urgente promossa il 14 ottobre scorso da Amnesty International, anche se le speranza  si fanno ogni giorno più flebili, e alcuni testimoni avrebbero raccontato che gli studenti sono stati bruciati vivi prima di essere seppelliti in fosse comuni. Intanto, il 23 ottobre si è dimesso il governatore dello Stato del Guerrero, Ángel Aguirre Rivero.
Se la pressione non si placa, presto potrebbe toccare anche al presidente della Repubblica Enrique Peña Nieto, che nel 2006 -quand’era governatore dell’Estado de México- si rese protagonista della repressione nei confronti degli abitanti di San Salvador Atenco, “responsabili” di non accettare la costruzione del nuovo aeroporto internazionale di Città del Messico su terreni comunitari, vocati all’agricoltura (vedi Ae 74). 

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