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Il latte versato
La stagione delle privatizzazioni ha lasciato un comparto concentrato e poco legato al territorio. Salerno e Brescia le ultime “centrali” pubbliche —
Se a Torino il latte della Centrale vola in Borsa, grazie ad accordi commerciali per l’export in Cina, ad Ascoli Piceno i trattori degli allevatori occupano le piazza, contro la chiusura dello stabilimento d’imbottigliamento cittadino, di Coalac. E a Salerno, infine, sono i lavoratori della Centrale del Latte -una società pubblica, controllata al 100 per cento dal Comune- a scendere in piazza, per protestare contro la prevista privatizzazione.
Queste tre istantanee, scattate nei primi mesi del 2014, ruotano intorno al mercato del “latte alimentare”: ogni italiano ne beve, in media, oltre 50 litri all’anno; viene venduto fresco o a lunga conservazione, e alimenta un fatturato complessivo che nel 2012 valeva oltre 2,4 miliardi di euro.
I ricavi, però, sono molto concentrati: il 45% del latte fresco e il 49,9% di quello a lunga conservazione appartengono a marchi riconducibili a due grandi gruppi, che sono Parmalat e Granarolo. Realtà che si sono allargate, a partire dalla metà degli anni Novanta, grazie alla progressiva dismissione delle aziende pubbliche incaricate di raccogliere, e trasformare, il latte. Il risultato? Anche se sono un centinaio le imprese ancora attive nel comparto del “latte alimentare”, molte città non bevono più il proprio. Da Napoli ad Ancona (tra le prime a privatizzare la Centrale del Latte, ceduta alla Cirio di Segio Cragnotti a metà degli anni Novanta), passando per Genova, dove Parmalat ha chiuso nel 2012 lo stabilimento rilevato nel 1992, e una trentina di dipendenti sono in cassa integrazione fino al settembre del 2014.
Le “aziende sono distribuite su tutto il territorio italiano, con una concentrazione più elevata nel Nord Italia laddove insiste la maggior parte della produzione di latte di vacca -spiega Fausto Marri di Assolatte Roma-. Le quote di mercato delle imprese sono piuttosto concentrate. Sul valore complessivo della produzione le prime 5 imprese incidono per il 62% e le prime 10 oltre il 75%”. Dopo Parmalat e Granarolo ci sono “Sterilgarda, Cooperlat, Padania Alimenti, Arborea e Newlat (con quote dal 3 al 7%) e ancora da Centrale del Latte di Torino, Centrale del Latte di Firenze e Latteria Soresina, con quote superiori al 2%”. “Il dato più significativo degli ultimi anni è rappresentato, però, dal ruolo assunto dal private label della grande distribuzione, che copra ormai quasi un quinto del mercato” nota Ilir Maksimiljan Gjika, ricercatore dell’Osservatorio sul mercato dei prodotti zootecnici dell’Università Cattolica sedi di Piacenza e Cremona. “La grande distribuzione, e i trasformatori, si spartiscono i margini” aggiunge Gjika, citando i dati del rapporto 2013 dell’Osservatorio, “Il mercato del latte” (Franco Angeli, 2014): il valore della materia prima agricola nel settore lattiero-caseario vale meno del 20 per cento.
Questa trasformazione del mercato si vede anche nelle stalle, e può essere riassunta confrontando i dati di “consegna” del latte regione per regione nelle campagne 2003/2004 e 2013/2014: nei primi dieci mesi (da aprile a gennaio), a fronte di un leggero aumento della produzione complessiva, passata da 8,36 a 8,6 milioni di tonnellate (più 2,8%), ci sono regioni come la Lombardia, il Piemonte e il Veneto che hanno visto crescere la propria “quota di mercato” (rispettivamente del 13,4, 18,9 e 8,5%) e altre in cui praticamente non producono più latte, come il Lazio, la Liguria o la Campania.
Nel 1996 il patron di Parmalat Calisto Tanzi aveva cercato di comprare anche la Centrale del Latte di Brescia, senza successo. Oggi è, con Salerno, una delle due rimaste realtà interamente sotto controllo pubblico: nel 2010, in un’intervista a Il Sole 24 Ore, il presidente della società Franco Dusina ricordava così l’approccio di Tanzi: “…in realtà il patron della Parmalat puntava solo al brand: avrebbe dismesso l’attività, conservando la rete di credibilità del nostro marchio. Mino Martinazzoli, che allora era sindaco […] rifiutò garbatamente l’offerta”.
La Centrale del latte di Brescia è “una struttura con un radicamento nel territorio molto forte, che non risente molto della concorrenza, ed è garantita da un consumatore molto fidelizzato” spiega Ilir Gjika dell’Osservatorio sul mercato dei prodotti zootecnici della Cattolica. Il valore del brand, di un marchio è chiaro anche leggendo l’ultima relazione agli analisi presentata a fine marzo dalla Centrale del Latte di Torino, una società quotata alla Borsa di Milano, nel corso della STAR Conference, un incontro con la comunità finanziaria italiana ed internazionale. L’azienda di Torino -che ha acquisito anche la Centrale del latte di Vicenza e quella di Rapallo (GE), che commercializza il “Latte Tigullio”- fattura circa 100 milioni di euro e detiene il 3,2% del mercato italiano, ma ben il 17% di quello relativo a Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Veneto, le sue regioni di riferimento. “Continuiamo a monitorare le aziende pubbliche che dovrebbero essere privatizzate ma che i comuni ancora non vendono” ha detto il presidente Luigi Luzzati a margina della STAR conference a Piazza Affari.
Il corsivo è nostro, perché non c’è nessun obbligo a privatizzare. Lo ha capito anche il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, che aveva giustificato con una presunta obbligatorietà la gara bandita nel corso del 2013 per cedere il 100 per cento delle azioni della Centrale del latte di Salerno. Il bando è andato deserto, e il Comune ha rinunciato a un’entrata di 12,7 milioni di euro (che era già stata iscritta nel bilancio di previsione del 2013), salvando così 75 anni di storia.
La Central del latte produce 16,5 milioni di litri di latte e fattura 22 milioni di euro.
Nel 2013 ha registrato utili per circa 600 mila euro, mentre nell’anno precedente l’avanzo di bilancio aveva toccato gli 800mila.
A metà febbraio 2014, per la prima volta nei 75 anni di storia della società, i dipendenti hanno fermato la produzione per due giorni, manifestando di fronte alla sede del Comune. Vincenzo De Luca, in diretta tv, ha parlato di “privilegi” e “parassitismi”, spiegando che chi è sceso in piazza lo ha fatto solo per tutelare “il proprio fondoschiena”, come riporta un articolo del quotidiano la Città di Salerno. La realtà, secondo alcuni dipendenti incontrati da Ae, è diversa: “La società sta cercando di espandere il proprio mercato di riferimento, e nel dicembre del 2013 le vendite hanno registrato un più 3% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente ci hanno spiegato-. Inoltre, grazie al progetto europeo ‘Salus per lactem’, realizzato in partnership conn la Regione Campania e l’Università di Salerno, e che ha ricevuto un finanziamento per 2,3 milioni di euro, abbiamo installato un nuovo impianto da 350mila euro che ci consente di realizzare ‘sperimentazioni a base lattea’, cioè di verificare la possibilità di allargare la gamma di prodotti offerti alla nostra rete di vendita”, che oltre al latte comprende per il momento yogurt, burro, panna, besciamella, formaggini e gelato. Sono 51 i dipendenti della Centrale del latte, mentre l’indotto è fatto da 250 allevatori del comprensorio, aziende agricole che in proprio o associate in cooperativa conferiscono il proprio latte, e da 70 persone che lavorano per le 16 concessionarie che si occupano della commercializzazione. “Per la prima volta -raccontano i dipendenti della Centrale- i contratti di fornitura del latte sono stati rinnovati con una scadenza a 6 mesi, fino al 30 giugno 2014. Prima erano annuali o biennali”. Una forma di precarietà, cioè.
Al consumatore invece può interessare sapere che la Centrale paga un litro di latte 0,50 euro, un prezzo alla stalla che è più alto della media (in Lombardia, ad esempio, gli allevatori che abbiamo incontrato nell’ambito dell’inchiesta sulle quote-latte, vedi Ae 155, ricevono 0,38 e 0,42 euro/litro), ma commercializza il latte fresco di alta qualità a un prezzo di 1,30 e 1,45, “a seconda del tipo di packacing: il primo è ‘spoglio’, una confezione senza tappo, che non permette di partecipare alla raccolta punti” spiegano i dipendenti della Centrale del latte. Producendo a Salerno, inoltre, la Centrale ha anche un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti: il latte viene consegnato ai rivenditori nello stesso giorno in cui finisce in bottiglia e può restare “sul mercato” un giorno in più, 7 invece di 6.
Secondo i dipendenti, il disciplinare che regolava il bando di gara avrebbe messo a rischio la continuità aziendale: parla infatti di “salvaguardia del know how e di “mantenimento dell’attuale livello occupazione”, ma senza far riferimento all’unità produttiva, al futuro dello stabilimento della Centrale del latte di Salerno. Che, tra l’altro, può anche allargarsi: all’interno dello stabilimento c’è la possibilità di costruire, per ampliare gli spazi dedicati ad uffici, magazzino e punto vendita aziendale. La conferma è una lettera d’incarico per la progettazione degli interventi di un Piano urbanistico attuativo (PUA), affidata a un architetto a fine settembre del 2013: dieci giorni prima il Comune aveva pubblicato il bando di gara per la vendita della Centrale del latte. —