Economia / Approfondimento
Il grande gioco dell’elusione fiscale delle multinazionali del tabacco
Le “Big 4” del tabacco ricorrono a strategie fiscali aggressive per pagare meno tasse. Così incidono anche sulle scelte dei consumatori con pesanti ricadute per i sistemi sanitari pubblici. Come fare per iniziare a contrastarle
Aggiungere un dollaro di sole tasse al prezzo di ciascun pacchetto di sigarette comporterebbe un maggiore introito per gli Stati tra 178 e 219 miliardi di dollari ogni anno. È quanto emerge dalle analisi di Tobacconomics, organizzazione specializzata nella ricerca relativa alle politiche economiche sul tabacco. Si tratta di risorse estremamente importanti, tanto più in un periodo come quello attuale in cui i governi cercano in ogni modo risorse per finanziare gli interventi pubblici. Tuttavia il contributo del settore del tabacco è più limitato rispetto a quelle che sarebbero le potenzialità: per la volontà degli Stati stessi di prevedere imposte limitate, da un lato, ma anche per le strategie fiscali aggressive attuate dalle aziende. Queste sono di per sé spesso legali, motivo per cui risulta difficile intervenire e impedire che le multinazionali evitino la tassazione. “Nell’ultimo periodo molte aziende hanno portato questi metodi all’esasperazione, agendo in un’area grigia -spiega ad Altreconomia Manon Dillen di The Investigative Desk, cooperativa di giornalisti specializzati sulle multinazionali-. È molto difficile capire che cosa sia legale e che cosa no, questa è probabilmente una delle ragioni per cui le società finiscono per vincere le cause giudiziarie”.
La pianificazione fiscale viene seguita da numerose imprese transnazionali: a volte però questa è particolarmente forzata e consiste in vere e proprie dissimulazioni, finalizzate a pagare tasse vicine allo zero. È il caso delle multinazionali high-tech Facebook e Google che -come noto- attraverso una strategia aggressiva finiscono per non contribuire (o contribuire pochissimo) ai bilanci degli Stati. Ma questa tendenza riguarda anche multinazionali impegnate in settori completamente diversi: il tabacco è uno di questi. Le strategie utilizzate sono diverse e consistono nello spostare il profitto dell’impresa in un Paese dove questo sia tassato al minimo, se non libero da ogni imposizione: per farlo, accanto alla società principale, vengono istituite delle succursali. Se le multinazionali high-tech puntano sul sistema delle royalties, quelle del tabacco tendono invece a spostare i profitti soprattutto attraverso prestiti fittizi tra le diverse società di un gruppo e il conseguente pagamento di un tasso di interesse. Altre volte la società principale e le succursali utilizzano la compravendita interna di materie prime e semilavorati.
“Nell’ultimo periodo molte compagnie hanno portato questi metodi all’esasperazione, agendo in un’area grigia” – Manon Dillen
Per tentare di delineare un quadro relativo alle grandi società del tabacco, The Investigative Desk, nel novembre 2020, ha pubblicato il rapporto “Big Tobacco, Big Avoidance”. Questo si concentra sulle quattro maggiori aziende del settore a livello mondiale, le cosiddette “Tobacco’s Big 4”: Philip Morris, British American Tobacco, Imperial Brands e Japan Tobacco, in grado di registrare complessivamente un ricavo annuo di oltre 80 miliardi di dollari. Dal rapporto risulta chiaro come le “Big 4” abbiano fatto ricorso in maniera massiccia a strategie fiscali aggressive. The Investigative Desk evidenzia lo spostamento dei dividendi: attraverso questo metodo ogni anno 7,5 miliardi di euro “transitano” per i Paesi Bassi e un miliardo giunge in Belgio, dove viene tassato a un’aliquota inferiore all’1%. Nel Regno Unito le multinazionali del settore puntano invece sulla compensazione delle perdite, sistema che permette a una società di un gruppo di farsi carico delle perdite di un’altra succursale: in questo modo Imperial Brands e British American Tobacco hanno potuto alleggerire il loro carico fiscale di 2,5 miliardi di sterline nell’ultimo decennio.
80 miliardi di dollari è il ricavo annuo delle quattro maggiori aziende del tabacco
Protagonisti nello “schema” fiscale sono, come si vede, alcuni Stati europei: in particolare Paesi Bassi, Belgio, Regno Unito, Irlanda, Lussemburgo e Svizzera. “La legislazione comunitaria per quanto riguarda la materia fiscale non è uniforme perché esiste un diritto di veto in Consiglio europeo che permette di evitare i tentativi di armonizzazione”, spiega Tommaso Faccio, capo del segretariato della Commissione indipendente per la riforma della fiscalità internazionale d’impresa (ICRICT). Gli Stati dell’Unione mantengono quindi aliquote e politiche fiscali differenti, permettendo così di evitare la tassazione. “Esiste una proposta di togliere l’unanimità, avanzata in precedenza da Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici fino al 2019 -prosegue- ma al momento è ferma, non se n’è fatto nulla”. La tassazione applicata alle industrie del tabacco e ai loro prodotti non incide soltanto sul bilancio pubblico, ma determina in parte anche le scelte e le abitudini del consumatore.
Frank J. Chaloupka si occupa da anni di economia dei comportamenti in materia di salute, cercando quindi di trovare i fattori che influenzano le abitudini degli individui. In particolare, ha concentrato la propria attenzione sul consumo di tabacco e su come questo sia influenzato dalle politiche pubbliche: una decina di anni fa ha perciò creato Tobacconomics. Con la Ong, Chaloupka cura il “Cigarette Tax Scorecard”, pubblicato nella sua prima edizione nel dicembre 2020: si tratta di una sorta di pagella degli Stati, un modo più facilmente comprensibile per spiegare come i governi tassino le sigarette nel mondo e quali effetti abbiano queste politiche sul consumo. Il giudizio su ogni Paese consiste in una valutazione espressa in base a diversi parametri: il costo di un pacchetto di sigarette, la variazione della sua convenienza nel tempo, la quota di tassazione e come questa è strutturata.
Lo Scorecard evidenzia come ogni anno il fumo sia responsabile di otto milioni di morti nel mondo. A questo si somma una perdita economica quantificata in 1.400 miliardi di dollari, tra spesa sanitaria e mancata produttività. Ad essere maggiormente colpiti sono i Paesi a basso reddito: il rapporto indica in particolare i casi negativi di Iraq e Afghanistan, dove le politiche sono valutate come estremamente carenti e i prezzi si attestano a poco più di un dollaro, calcolato a parità di potere d’acquisto. A questo si sommano spesso situazioni di salute precarie, altre volte l’impossibilità di accedere al sistema sanitario, fattori che amplificano i problemi causati dal fumo. Altra categoria colpita dalle politiche insufficienti sono i giovani: questi risultano più sensibili al variare dei prezzi, perciò una tassazione più consistente sarebbe per loro un potente disincentivo. Contrastare il consumo giovanile sarebbe cruciale, sottolinea il rapporto, considerato che quasi tutti i fumatori hanno cominciato durante l’adolescenza.
Lo Scorecard sottolinea che ogni anno nel mondo il fumo è responsabile di otto milioni di morti. In Italia fuma il 23% della popolazione
In Italia ad alcuni elementi positivi si aggiunge una serie di criticità. La tassazione è elevata, tuttavia la sua struttura andrebbe ripensata in modo da renderla più efficace, suggerisce Chaloupka: i modelli che indica sono Australia e Nuova Zelanda, dove le imposte si adeguano automaticamente all’inflazione e alla crescita del reddito e si applicano su ogni tipo di sigaretta. Una misura di questo genere ha un effetto benefico sui prezzi che nei due Paesi si attestano rispettivamente a 25 e 21 dollari per pacchetto. In Italia ci si ferma invece a poco più di cinque euro, un prezzo basso anche se confrontato al resto d’Europa: nel Regno Unito un pacchetto costa circa il doppio. Le conseguenze sono riscontrabili nella quota di fumatori, fornita da Eurobarometro: in Italia fuma il 23% della popolazione, in linea con la media continentale, oltremanica ci si ferma al 12.
Tobacconomics sottolinea come l’opinione pubblica sia favorevole a un aumento delle tasse sul tabacco -fumatori compresi- ma i governi fatichino ad andare in questa direzione, anche per la pressione delle grandi industrie. “Le stesse multinazionali del tabacco capiscono quanto la tassazione sia efficace nel ridurre il consumo -osserva Chaloupka-. Oppongono perciò argomentazioni economiche, sostenendo che imposte più elevate porterebbero a una perdita e avrebbero conseguenze anche sull’occupazione, soprattutto tra le popolazioni a basso reddito”. Il ricercatore indica però come non esista un’evidenza di questo tipo e anzi sia dimostrato che maggiori misure di controllo sarebbero positive per l’occupazione: “La produzione di tabacco è ad alta intensità di capitale -spiega infatti Chaloupka-. Se le persone non comprano sigarette usano i loro soldi per altri prodotti, creati con un impiego maggiore di lavoro”.
La tassazione applicata alle industrie del tabacco e ai loro prodotti non incide solo sul bilancio pubblico, ma determina anche scelte e abitudini del consumatore
Nonostante le resistenze, l’approccio verso il mondo del tabacco sembra essere destinato a cambiare a breve: influiscono la crisi e la convinzione che anche le multinazionali debbano contribuire alla ripresa. “L’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti ha avuto un forte impatto: la Casa Bianca vuole ora alzare la tassazione per le imprese al 28%, dopo che Donald Trump l’aveva abbassata dal 35 al 21% -osserva ancora Tommaso Faccio-. In generale i governi si stanno accorgendo che abbassando l’aliquota non si ha un effetto sugli investimenti: lo si è visto negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito e in India”. Importante anche il ruolo degli investitori, sempre più restii a puntare sulle aziende coinvolte in pratiche dubbie. “Oltre ai motivi reputazionali ed etici, esistono rischi legati all’investimento stesso: è infatti possibile uno scontro tra l’azienda e le autorità fiscali, che porterebbe a un aumento della tassazione non lineare e non prevedibile”.
1.400 miliardi di dollari è la perdita annua causata dal fumo in termini di di spesa sanitaria e mancata produttività
Fondamentale sarà agire a livello sovranazionale: il cambiamento di un singolo Stato porterebbe l’azienda a trasferirsi in un Paese dove le regole sono ancora favorevoli. “Come ICRICT siamo contrari a un sistema che permetta a una società di spostare i profitti come vuole -spiega Faccio-. Crediamo che questa vada considerata a livello globale e che ci sarebbe bisogno di una tassazione minima uniforme, fissata ad almeno il 25%. La proposta di Biden si ferma al 21% ma va nella giusta direzione ed è un gran passo avanti”. Un’imposta di questo tipo viene applicata dal Paese dove è residente la multinazionale e tassa tutte le affiliate e i profitti esteri con una certa aliquota, meno quella già applicata all’estero: in questo modo non serve più a nulla spostare i profitti. “Al momento c’è una discussione interna all’Ocse per trovare un accordo globale, tuttavia è importante anche che i grandi Paesi agiscano in maniera autonoma -conclude-. Se tutti i membri del G20 adottassero la tassazione minima uniforme al 21%, il 90% dei profitti mondiali sarebbe tassato ad almeno quel livello e ci sarebbe una spinta decisiva verso questa direzione”.
© riproduzione riservata